RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'album dei ricordi

Il fascino delle vecchie cantine, locali ormai pressoché inesistenti nelle abitazioni moderne, ha sempre ispirato, nella letteratura e nel cinema, storie dove l'affabulazione, fantastica o realistica, si fonde col vissuto dei protagonisti, con i loro ricordi, o addirittura diviene luogo di chiarificazione estrema, a se stessi e agli altri, di gioie, dolori, confessioni, recupero di rapporti familiari ormai deteriorati dal tempo, o da rancori inespressi. Come dimenticare la scena in cui, ne La gatta sul tetto che scotta, il burbero patriarca, attorniato da una miriade di cianfrusaglie, apre il suo cuore, confidando le sue aspettative e il timore della morte imminente al figlio Brick, nel tentativo estremo di salvarne il matrimonio e l'esistenza dall'alcolismo e dai sospetti sulla giovane moglie? Oppure le tante cantine depositarie di impolverati segreti di generazioni, che aprono squarci improvvisi e laceranti sul passato di una famiglia, sul segreto di una madre, su oscuri delitti ormai dimenticati?

E proprio una cantina, piccola, buia e affollata di bauli, vecchi attaccapanni e di una scatola di latta per biscotti (i canonici biscotti Plasmon che hanno nutrito tante generazioni dal dopoguerra in poi) è lo sfondo, colmo dei giochi di ombre di una giallognola lampadina, di Album, atto unico di Concetto Venti, che ne è anche il protagonista, andato in scena il 21 gennaio al teatro L'Istrione, per la rassegna Cunti&Curtigghi, storie da cortile, che ospita appunto brevi testi teatrali dove l'affabulazione gioca un ruolo principale.

Album, nato, secondo le parole stesse dell'autore, da quella grande pausa nelle nostre esistenze decretata dal look down pandemico (che impose agli italiani di inventarsi nuovi modi per passare un tempo divenuto desolatamente vuoto, tranne che per le ossessive notizie con le quali telegiornali, talkshow e trasmissioni varie facevano di tutto per terrorizzare una popolazione già abbastanza sbalestrata), da una rilettura delle opere di Leonardo Sciascia, si configura come un estremo tentativo di ricapitolazione del passato isolano, dalla nascita del fascismo sino al dopoguerra. Ed ecco così snodarsi dalla voce di Concetto Venti la descrizione della misera esistenza degli zolfatari, la povertà diffusa, l'affacciarsi di figuri in camicia nera, la smania per la guerra, le parate di ragazzini e bambine al sabato, fino al tesseramento di massa, dove la capacità di arrangiarsi dei siciliani (ben copiata in tempi moderni da tutti gli italiani durante il vergognoso green pass), senza mai ribellarsi se non nel chiuso delle proprie mura, e sempre e soltanto a borbottii, fece sì che molti riuscissero comunque a campare con tessere false, raccattate qua e là, nell'attesa che la buriana passasse. Sì, perché è anche questo che emerge tra le righe del monologo: la speranza tutta siciliana che ogni cosa passerà, per brutta che sia, e dall'altro canto la convinzione che nulla comunque cambierà, almeno nelle sue linee essenziali. Non cambierà (e non è cambiata) la sufficienza con la quale il Nord ha trattato da sempre il Sud, e parallelamente non è mutato l'atteggiamento nei confronti delle immigrazioni di massa, verso l'America un tempo, verso le fabbriche del Nord nel dopoguerra, verso le scuole del Nord oggi, né sono mutate le illusioni sempre deluse degli emigrati per un futuro migliore, per un'esistenza finalmente libera dalla miseria. Nuove ipocrisie si sono sostituite alle vecchie, fascisti della prima ora si sono seduti sugli scranni del parlamento italiano a fianco di democristiani, di comunisti, di liberali, talvolta iscritti proprio tra le fila degli stessi partiti nati dalla Resistenza. Il filo rosso che gli immigrati novecenteschi tendevano tra di sé e i familiari rimasti sulla banchina, destinato a spezzarsi al primo moto della nave, è lo stesso filo che lega il passato al presente, a un presente fatto oggi come ieri di una cupa rassegnazione, di un'arrendevolezza di fondo allo status quo che è certo il limite più grande di noi isolani.

Un lavoro intenso, che la regia di Valerio Santi, attenta sin ai più piccoli particolari, ha contribuito a esaltare, con la scelta minuziosa e significativa degli oggetti di scena, e guidando la recitazione di Venti, interprete dotato di gestualità misurata, di ottima mimica e di perfetta dizione che gli hanno permesso di reggere senza sbavature dall'inizio alla fine, su una pacatezza affabulatoria che ha coinvolto il pubblico come una lontana eco della memoria, sulla quale si stagliavano brani di antichi canti siciliani, intonati dallo stesso attore, che contribuivano a far rinascere un passato ormai lontano ma forse ancora dolorosamente vicino, se è vero che l'ipocrisia, in ogni tempo e in ogni luogo, ha da sempre costituito il marchio distintivo della politica.

Giuliana Cutore

23/1/2023

La foto del servizio è di Caterina Arnò.