RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Paint it black

È buio, non si vedono più le nubi. In una serata ventosa l'esito di una prova di primavera bolognese finito male si respira nell'aria, passanti delusi e avvolti nelle ultime sciarpe rimaste fuori dall'armadio. Davanti al Teatro Comunale è pieno di polizia. La recita della sera, alla quale siamo poco abituati, ha tutto un preludio di macchinoni blu da dove scendono signore profumate e gentiluomini azzimati. Forse per la prima volta ci sentiamo un po' stranieri in questo teatro, un po' in prestito, appoggiati in una platea di abbonati che apparentemente si conoscono tutti, avvolti in completi grigi e impegnati in altissime discussioni su grandi baritoni e soprani dalla fulgida carriera.

Ancora leggermente spaesati assistiamo al preludio cupo, prima di immergerci nella scena affollata della festa al palazzo ducale. Compare un Rigoletto dal look aggressivo, pantaloni di pelle e niente gobba, un animale notturno intriso di buio. Alberto Gazale sfoggia una voce maestosa, e impadronendosi della ribalta svela già nei primi minuti il suo approccio all'interpretazione: sembra dirci che nella prima delle opere della trilogia popolare il canto viene prima di tutto, è la voce che deve esprimere il personaggio, con la conseguente, evidente scelta di lasciare in secondo piano alcune finezze mimiche ed espressive. È, in effetti, un Rigoletto del tutto e subito, dell'estetica decisa, il rosso e il nero, come ci tengono a farci sapere, anche loro da subito, il regista Alessio Pizzech e lo scenografo Davide Amadei, scegliendo per il primo quadro un'ambientazione carica di richiami ad Eyes Wide Shut e Twin Peaks, con ampi tendaggi rossi da cielo a terra, tagli di luce carichi di ombre, figure lugubri e sfatte. Il richiamo ad un'atmosfera sordida è gridato, la dissolutezza dei personaggi che fanno da corona all'immenso, tremendo letto su cui si contorce il Duca è palpabile. Mentre osserviamo l'animatissima dinamica di scena, cerchiamo un dettaglio, un'arguzia drammaturgica o scenografica su cui concentrare la nostra attenzione e farci rapire da quello smarrimento che tutti gli spettatori cercano per entrare completamente nello spettacolo. Lo smarrimento c'è, ma non è quello giusto: è tutto talmente allusivo, ammiccante e votato alla decorazione – di grande impatto ma un po' stucchevole la quintatura scatolare che riproduce la Sala dei Giganti del mantovano Palazzo Te – che rinunciamo a cercare un dettaglio drammaturgico o scenografico il quale palesando una genuina volontà interpretativa ci coinvolga veramente. Va però riconosciuto che all'interno di una compagine di questo tipo l'irruente corporeità di Stefan Pop, il Duca, si combina piuttosto bene: il giovane tenore, nonostante la corporatura massiccia, è estremamente dinamico, così come la sua voce, calda e tagliente, sebbene a volte risulti leggermente compressa nella maschera nei fraseggi più intensi. Degna di nota l'interpretazione di Nicolò Ceriani, qui nei panni del Conte di Monterone, elegante e precisa nel mettere in scena la disperazione e la vulnerabilità del padre ferito.

Nel secondo quadro, con il sipario scuro che cela la scena, la scelta di un'assoluta semplicità scenografica e dinamica paradossalmente si rivela estremamente efficace, facendo piombare Rigoletto nell'oscurità della propria anima – quel vecchio maledivami – e palesando, attraverso un vuoto di colori e oggetti che ricalca i frequenti silenzi dell'orchestra voluti da Verdi, il germe della vendetta che si insinua nel melodramma. Unica nota discordante, la scelta di dare allo Sparafucile di Abramo Rosalen – bravo nella caratterizzazione – fattezze un po' troppo rurali, quando un costume decisamente più da cattivo non avrebbe guastato.

Arriviamo dunque a conoscere Lara Lagni, una Gilda giovane, virginale, perfetta nelle fattezze e nell'atteggiamento sperduto e candido, che ci sorprende con un'interpretazione non coloritissima ma estremamente meticolosa, soprattutto nei duetti, dove sfoggia una tecnica impeccabile, e nei pianissimo, nei quali con un filo di voce riesce a riempire la scena e coinvolgere il pubblico. Se lo scenografo sceglie di collocare la protagonista femminile in una casa di bambola, compiendo un'operazione stilistica che risulta abbastanza goffa, il costumista e il regista infieriscono, l'uno vestendola di un completo rosa, l'altro costringendola in movimenti non proprio fluidi e abbastanza ripetitivi. Proprio per le preziose qualità canore e interpretative già descritte, noi questa Gilda l'avremmo preferita vedere più libera, leggera, in un scenografia magari meno invadente, capace di valorizzare il legame profondissimo e rarefatto tra padre e figlia.

A parziale giustificazione dell'aspetto di Sparafucile, un po' pescatore, un po' cacciatore inglese, è la trasfigurazione della locanda, qui trasformata in lugubre barcone fluviale, ben inserito nella scena seppur la ricorrente presenza di figure in completo di pelle impegnate in movimenti sinuosi e sensuali – mah... – ne rovinino l'efficacia scenografica. Il latex e una parrucca anni ‘80 non risparmiano Maddalena, Anastasia Boldyreva, voce calda e piena, valorizzata dalla sensuale fisicità, che ben si accorda alla profondità del basso.

La produzione operistica di Verdi, per come la vediamo noi, è profondamente imbevuta di spirito emiliano; possono cambiare le ambientazioni, le epoche e i personaggi, ma alcuni caratteri essenziali di questa terra umida e odorosa, quel voler essere per natura cittadini del mondo, riuscendoci, e quel continuo tradirsi ostentando la propria provincialità – forse per una certa, inguaribile umanità – sono sempre presenti. In Rigoletto tutto ciò è indivi duabile in superficie: la sfrontatezza, l'istinto, l'essere umani nella luce e nel buio.

E forse è un po' di buio che manca in questo spettacolo.

Giovanni Giacomelli

1/4/2019

Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.