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Otello torna al Bellini 
Dopo ben trentotto anni di assenza torna sul palcoscenico del Bellini di Catania l'opera verdiana che in certo senso, complice anche la collaborazione con Arrigo Boito, segna il massimo punto di approdo della drammaturgia musicale verdiana, in un lunghissimo percorso che aveva condotto il Cigno di Busseto alla più alta sinergia tra parola e musica, in un progressivo, inesorabile prosciugamento e sfrondamento del melodramma da tutti i suoi orpelli, nel definitivo abbandono dell'aria chiusa in favore di un possente declamato, insomma in quella felice intuizione della parola scenica che aprirà le porte all'opera lirica moderna: Otello.
Cavallo di battaglia di uno dei più grandi tenori del mondo, di quel Mario Del Monaco che del Moro di Venezia è ancor oggi insuperato interprete, il debutto di Otello il 21 novembre (con repliche sino al 29) si è aperta con un commosso ricordo del cantante fiorentino (la cui madre era di origini siciliane), durante il quale hanno preso la parola il Sovrintendente del nostro Teatro, Giovanni Cultrera, e il Sindaco di Catania, Enrico Trantino, il quale ha consegnato al figlio di Del Monaco, Giancarlo, affermato attore, una targa commemorativa dedicata al suo grande padre.
Ha avuto poi inizio lo spettacolo, che riprendeva una produzione dell'Opéra de Monte-Carlo, su allestimento dell'Opera nazionale di Tbilisi, con la regia ripresa da Zaza Agladze, i costumi di Ester Martin Garrido, le scene di Bruno de Lavenére e le luci di Antonio Alario: si tratta di una mise en scéne che, seppur abbastanza tradizionale nell'impianto generale, riusciva a sfruttare appieno le risorse moderne, slargando e dilatando la scena fissa, un grande spazio vuoto inquadrato da una balconata che su un lato del palcoscenico terminava in una scala a chiocciola di hitchcockiana memoria, metafora forse dell'inesorabile discesa agli inferi che attende Otello, sia con un sapiente uso del velatino, sul quale venivano proiettati i fulmini e le nubi della tempesta del primo atto, lungo i quali a tratti passava un truce volto moresco – e qui si potrebbe rammentare l'iconica scena di The Passion, dove Satana trascorre tra la folla che segue l'ascesa al Golgota di Cristo. I video di Étienne Guiol e Arnaud Pottier donavano ulteriore profondità al palcoscenico, dinamicizzando la scena con suggestive immagini ora di un mare in tempesta, ora del lento infrangersi delle onde sulla spiaggia, ora di un sontuoso pavimento rinascimentale, ora di una notte cupa nel quarto atto. Le coreografie di Lino Privitera, essenziali e asciutte ma di grande gusto, affidate a ottimi danzatori, hanno ulteriormente impreziosito uno spettacolo che, pur nella ricchezza dei costumi, e nella dinamicità visiva, è riuscito in quello che dovrebbe essere il fine ultimo di ogni regia d'opera: costruire uno spettacolo elegante e gradevole senza distrarre continuamente lo spettatore dell'aspetto musicale e drammaturgico, vezzo che purtroppo affligge troppi blasonati registi che fanno di tutto per apparire i veri creatori dell'opera, a tutto discapito del musicista.

Sul fronte musicale, va senz'altro sottolineata la continua crescita dell'orchestra del nostro Teatro e la grande cura dedicata dal direttore Fabrizio Maria Carminati alla concertazione, cura che ha permesso una notevole precisione negli attacchi e nei rilasci del suono, un corretto equilibrio dei tempi, non eccessivamente serrati ma stretti quel tanto che bastava a rendere appieno l'impetuosa drammaticità dell'opera, con le dovute pause liriche che sono risultate di notevole suggestione e dolcezza, ma soprattutto una misura generale nelle sonorità che, seppur roboanti quanto la partitura di Otello esige, non hanno mai sovrastato i cantanti né debordato in una sterile irruenza fonica. Da evidenziare per correttezza e dolcezza di suono gli interventi del corno inglese e dell'arpa e la possanza drammatica dei contrabbassi, durante l'ingresso nella camera di Desdemona del Moro nel quarto atto. In forma smagliante anche il Coro, diretto come sempre da Luigi Petrozziello, coro che, in sintonia con l'orchestra, è riuscito in ogni suo intervento a mantenere le robuste sonorità richieste dall'opera senza mai eccedere. Preciso anche l'intervento del Coro di voci bianche diretto da Alessandra Lussi, accompagnato sul palcoscenico da due mandolini e da una chitarra, che hanno creato una palpabile atmosfera rinascimentale in questa delicata scena corale.
L'Otello di Gregory Kunde, tenore che vanta in repertorio entrambi gli Otello, quello verdiano e il meno eseguito rossiniano, ha costruito il suo Moro di Venezia all'interno di un particolare contesto intimistico, privilegiando non gli aspetti eroici, belluini e feroci del personaggio, ma quelli di estrema disillusione, spaesamento e confusione lungo il proseguire dell'opera nefasta di Jago: ne è risultato un protagonista che, evitando le secche di una rabbiosità incontrollata, ha impresso al ruolo una vocalità più misurata, senz'altro meno spettacolare, ma non per questo meno interessante, almeno per la coerenza del taglio che ha dato a tutta l'evoluzione del suo Otello. Stentoreo quanto basta (forse un tantino meno) nel fatidico “Esultate!”, dolcemente appassionato nel duetto d'amore con Desdemona, ha man mano infuso alla sua recitazione tutti i tratti del disorientamento, in una gestualità volutamente incerta, talvolta barcollante, quasi da marionetta sotto le mani esperte di Jago. Se il suo “Dio! mi potevi scagliar”, non ha conosciuto le dolenti esitazioni in pianissimo di Del Monaco, tuttavia ne è risultata una crescente esplosione di sofferenza interiore, che ha trovato il suo culmine nel quarto atto, nell'indecisione palpabile se uccidere Desdemona o meno, e infine nell'atroce rivelazione del proprio errore, dove Kunde ha sfoderato tutta la sua elegante malìa lirica in un finale dolcissimo che ha scatenato una vera e propria ovazione del pubblico.
Franco Vassallo è certamente stato uno Jago che Verdi avrebbe apprezzato e lodato, per la sua insinuante malizia, per un'arte attoriale che ha giocato su movenze controllate, da ipocrita più che da malfattore incallito, mentre dal punto di vista vocale ha dominato perfettamente il declamato verdiano, evitando di caricare il suo Credo di rabbia, quasi invece comunicandolo come quello che realmente è, una professione di fede corrotta, di un uomo che crede che tutti i suoi simili siano come lui e si regola di conseguenza; lo stesso dicasi del brindisi del primo atto, che Vassallo ha cantato in maniera impeccabile, evidenziando la splendida brunitura della sua zona media, e in generale di tutta la sua performance, caratterizzata da un'attenta cura di ogni dettaglio del personaggio, per il quale può certamente dirsi un interprete di riferimento.
Meno convincente la Desdemona di Lana Kos, alquanto scolastica in tutta la resa del personaggio, con una certa tendenza a scoprire gli acuti e a non curare la morbidezza dell'emissione: pur se dotata di una buona tecnica, non è riuscita a trovare la quadra della Canzone del salice, dove sarebbe stato necessario un uso più accorto delle mezzevoci, né a creare quella dolorosa premonizione di morte dell'Ave Maria, cantata in maniera piuttosto convenzionale e privata di quelle pause e di quei filati dolcissimi nei quali era maestra la Desdemona per eccellenza: Renata Tebaldi.
Interessante la prova fornita da Paolo Antognetti, Cassio, tenore molto elegante e dotato di una notevole morbidezza di emissione e dolcezza di timbro; di ottimo livello il Ludovico di Luca Dall'Amico, basso dalla voce piena e brunita che meriterebbe ruoli di maggiore rilievo. Completavano il cast Ivan Tanushi (Roderigo), Francesco Brancaccio (Montano) e la brava Anna Malavasi (Emilia).
Lunghi e calorosi applausi sono stati tributati alla fine dell'opera dal foltissimo pubblico intervenuto.
Giuliana Cutore
22/11/2025
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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