RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dogi in terra di dogi

A Giuseppe Verdi dovette sembrare un'idea brillante presentare un'opera tratta da The two Foscari di George Byron proprio nella città dove la tragedia si ambienta: Venezia. Prende in considerazione il soggetto, stende il canovaccio assieme a Francesco Maria Piave, lo presenta alla censura e… viene rifiutato. Perché nel 1843 presentare un'opera alla Fenice con ancora vivi i discendenti delle famiglie Foscari e Contarini era troppo compromettente, senza contare che l'autore del lavoro originario era assurto, morto per la libertà e l'indipendenza della Grecia, a simbolo di idee rivoluzionarie, idee, come dire… poco gradite. Pazienza. Alla Fenice si fa conoscere con Ernani e si tiene buono il soggetto byroniano per altra occasione. Occasione che non tarda ad arrivare, quando l'anno successivo firma un contratto col Teatro Argentina di Roma per una nuova opera, che, scartato un abbozzo per un Lorenzino de' Medici (anche in questo caso un soggetto rischioso per la censura, stavolta pontificia, ma che musicherà Pacini nel 1845 su libretto dello stesso Piave), sarà proprio I due Foscari, andata in scena per la prima volta il 3 novembre 1844.

Da Venezia, città dogale, per lo meno luogo del suo concepimento, il sesto titolo della produzione verdiana, dopo Oberto, Un giorno di regno Nabucco, Lombardi e il già citato Ernani, approda ad un'altra città dogale, Genova, fregiandosi di un allestimento e di un cast di tutto rispetto, di cui si dirà riferendosi alla recita di domenica 2 aprile 2023.

L'allestimento riprende quello presentato alla Scala nel febbraio 2016, produzione che vide Domingo, Meli, Pirozzi e Concetti diretti da Mariotti, e che porta la firma, per regia e scene, di Alvis Hermanis. Scene che diventano via via minimali man mano che l'opera avanza, ma che riescono comunque a evocare bene la Venezia del XV secolo, dai fondali che riproducono la veduta dalla Sala del Consiglio di Palazzo Ducale nel primo atto – la laguna veneziana, la cupola di San Giorgio Maggiore e il campanile di San Marco attraverso le ogive e i quadrilobi del loggiato –, fino alle spoglie stanze private del Doge nel terzo, rappresentate soltanto da un letto a baldacchino al centro del palcoscenico (per il resto, tappezzeria in ocra pastello, che riprende il damascato veneziano, e la stanza vuota, ma di un vuoto che aumenta il senso di austerità dell'ambiente, come nella scena del duetto Francesco-Lucrezia, in cui figurano soltanto un piccolo trono e un mappamondo in legno), passando per le scure carceri nel secondo – in penombra grazie alle luci di Gleb Filshtinsky –, rese simili a un deposito di statue inutilizzate grazie agli enormi leoni dalle espressioni angosciate (appropriata in questo caso la scelta del ponte dei sospiri sullo sfondo) che occupano gran parte della scena. Menzione a parte per la variopinta e movimentata scena della regata, con tanto di gondole transitanti sullo sfondo, al cui fasto e alla cui espressione cromatica contribuiscono gli splendidi costumi di Kristìne Jurjàne, ispirati anch'essi al broccato damascato veneziano e a certi quadri di Hayez: se da un lato i suoi costumi fanno centro con le maschere a mezzo volto di Loredano e Barbarigo, con la veste dogale di Foscari senior dall'altra, corno ducale compreso, con l'abito da perfetta dama rinascimentale veneziana di Lucrezia, e di Jacopo al primo atto, dall'altro, anche la semplice sottoveste bianca del Doge all'ultima scena rende perfettamente il senso di smarrimento e di indifesa nudità del personaggio di fronte ai Dieci che irrompono nella sua stanza. I Dieci, per l'appunto: data la sproporzione con il numero dei coristi, il regista ha preferito rappresentare questa “decarchia” con dieci mimi, truccati con una mascherina rossa all'altezza degli occhi come fossero banditi. L'idea non è male, potendo trasmettere quel senso di fumosa “giustizia” di cui si riempiono la bocca, dove il silenzio e il mistero la fanno da padrone al posto della chiarezza e della trasparenza: peccato che i movimenti a scatti imposti dalle coreografie di Alla Sigalova, per i quali i mimi dapprima accarezzano una statua di leone alato, poi gli si alzano e abbassano attorno, risultino, più che guardinghi, ridicoli (nella mente di chi scrive si sovrapponeva un altro tema verdiano: quello della congiura). Più attinenti al contesto quelle della già citata scena della regata, con aggraziate evoluzioni circensi eseguite dalla Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS.

Se l'allestimento convince (ma ci va poco a convincere lo scrivente: basta non ambientare un Elisir sulla spiaggia o un Nabucco a Lampedusa…), convince anche di più l'aspetto musicale, a cominciare dalla soddisfacente e incalzante direzione di Renato Palumbo, in grado di sottolineare, con accurato lavoro di concertazione, le raffinatezze timbriche e armoniche della scrittura verdiana e di conferire la giusta energia alla partitura – giusta e anche leggermente eccedente, data l'eccessiva enfasi a molti dei tutti orchestrali che tendono, anche se di poco, al rumoroso, e l'eccessivo contrasto dinamico forte-piano del coro al cominciare di Non fia che di Venezia, davvero troppo sbalzato. L'Orchestra del Carlo Felice ben risponde alle indicazioni del direttore, dimostrandosi valida e all'altezza; bene anche per il Coro del medesimo Teatro, istruito da Claudio Marino Moretti, cui si può imputare soltanto una pronuncia non sempre intellegibile e scandita, ma di cui si apprezza l'omogeneità dell'impasto timbrico e l'uniformità di colore.

Promosso a pieni voti il cast, composto da professionisti ben assortiti e di assoluto rilievo. Fabio Sartori disimpegna il ruolo di Jacopo Foscari imprimendo al suo personaggio caratteri appassionati, in grazia soprattutto di uno strumento solido, di acuti sostenuti e potenti, che corrono per la sala ancorché un poco sforzati, e di frasi melodiche ben legate; qualche sfumatura in più, in un personaggio che è tutto sogno, disincanto e malinconica rassegnazione, non sarebbe guastata, ma è forse nella natura di Sartori caratterizzare il suo Jacopo con più acceso, “byroniano” eroismo. Considerazione simile può dirsi per la Lucrezia Contarini di Angela Meade, già apprezzata Aida al Regio di Torino da parte dello scrivente e nella quale si era evidenziata la caratteristica di riuscire al meglio nei passaggi di “furore”, di contrasto e di attacco contro un antagonista (là Amneris e Amonasro), e sbozzare meno bene (ma sempre con un suo perché) quelli più intimistici. In un personaggio come Aida, quasi equamente divisa tra questi due atteggiamenti, intimo ripiegamento da un lato e trasporto di innamorata dall'altro, e prescindendo ovviamente dal fatto che Aida è personaggio di un Verdi più che maturo, questa caratteristica ha delle conseguenze: in uno come Lucrezia, guidata, dominata e quasi accecata dal desiderio di giustizia contro i Dieci, che la porta ad essere granitica, monolitica, energico contraltare in questo del marito – e basti vedere i temi che Verdi associa ai due: languido e malinconico, affidato all'oboe solo, quello di lui, che già prefigura con questo strumento il mood di Tutte le feste al tempio, fremente e inquieto, affidato agli archi, quello di lei –, ne ha delle altre: la Meade è qui più che a suo agio, e ha buon gioco di sfoderare la sua voce piena, vibrante, di alto peso specifico, di ampio volume e di timbro velatamente scuro, per caricare la sua Lucrezia di prorompente virulenza contro i Dieci e contro il Doge. Certo, c'è anche il lato della moglie dolente, che si estrinseca nel duetto del secondo atto con Jacopo: e in questo, sì, sarebbe stata auspicabile qualche attenzione in più alle sfumature, ai piano, ai filati. Ma se Sartori e Meade danno prova di grande interpretazione, sopra di loro giganteggia il Francesco Foscari di Franco Vassallo. Tralasciando i pur ben fatti interventi nel primo e secondo atto, la scena finale del terzo è una vera e propria lezione di stile di canto e recitazione: Vassallo unisce, a splendide doti vocali, convincenti doti attoriali. Volume e controllo della voce, fraseggio, dizione, partecipazione emotiva al ruolo (che invero contagia anche una sensibile signora del pubblico): nella sua interpretazione c'è tutto, e dosato in maniera da risultare altamente credibile, in quell'andirivieni incredulo di quanto gli sta accadendo o in quell'accasciarsi e disperarsi sul baldacchino. Peccato che tanto sfoggio di lodevole bravura non venga adeguatamente compensato dallo Jacopo Loredano di Antonio Di Matteo, interpretazione buona, voce non disprezzabile, ma intubata per renderla più cupa e minacciosa: scelta che invece non sortisce l'effetto.

Il valido comprimariato comprende il Barbarigo di Saverio Fiore, la Pisana di Marta Calcaterra, il Fante di Alberto Angeleri e il Servo del Doge di Filippo Balestra.

La recita registra ampio consenso di applausi convinti, ma un'ovazione vera e propria accoglie e richiama varie volte Vassallo, di certo tra tutti la superstar della serata.

Christian Speranza

25/4/2023

Le foto del servizio sono di Marcello Orselli.