RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Venezia

Alla faccia dell'acqua alta

La città e il suo Teatro ce l'hanno fatta ancora una volta. Quando tutto faceva temere il peggio in tutti i sensi e la cancellazione della prima (o di più recite) della nuova stagione de La Fenice, il miracolo si è avverato. La banda che suonava musiche del Don Carlo verdiano a Campo San Fantin poco prima dell'inizio dello spettacolo si chiamava, guarda caso, La Vittoria. Guarda caso, il pubblico era venuto inarrestabile all'appuntamento. Le parole del primo cittadino erano commosse e approvate con un prolungato applauso salito alle stelle quando, durante gli applausi finali, si presentavano tutti i lavoratori del Teatro. Un esempio di tenacia che non dovrebbe cadere – ancora una volta – nel vuoto. Non sempre il caso è così positivo e i risultati potrebbero essere ben altri.

La recita per sé, emozioni comprensibili a parte, è stata buona, perfino molto buona. Myung-Whun Chung è un maestro molto apprezzato qui e dovunque ed è noto per la sua affinità con la musica di Verdi. Questa volta però la sua lettura mi è sembrata meno interessante, più monolítica, di quella che diede due anni fa alla Scala, e in più di un momento esageratamente forte. L'orchestra eseguiva bene una partitura difficile e la prestazione del coro (come sempre istruito dal maestro Claudio M. Foretti) molto buona.

Lo spettacolo di Robert Carsen visto per la prima volta a Strasburgo era buio, fosco, di un nero-grigio opprimente, e in tanti momenti assolutamente corretto. Ma quando la musica indica chiaramente colori, e per di più vivaci: il quadro del giardino, lo stesso autodafé, insiste sempre sulla stessa nota della Spagna nera e – una cosa che forse Verdi avrebbe approvato – sull'abusiva presenza della Chiesa come prima e vera autorità politica oltre che religiosa. Le cose però non tornano quando si snatura – mi pare – la figura di Posa, che fa un'alleanza con l'Inquisitore e quindi niente morte ma una finzione, e alla fine dell'atto una stretta di mani che si risolve nella scena finale dell'opera quando ricompare nelle vesti di nuovo re mentre i sacerdoti, e per primo il misterioso Frate-Carlo V, uccidono Filippo e l'infante (ma non si sa perchè lasciano in pace Elisabetta).

Si sa che è impossibile che tutti i cantanti si trovino allo stesso altissimo livello che le loro rispettive impervie parti richiedono, perfino quando si fa un disco e non una recita dal vivo. L'insieme però era soddisfacente. Sugli scudi, due: la principessa Eboli di Veronica Simeoni (ancora meglio, se possibile, che a Bologna), di un'intensità vocale ed espressiva mai sopra le righe e a suo agio sia nelle agilità della canzone del velo sia nei salti da gravi ad acutí e le grandiose frasi del resto del suo ruolo; e il re di Alex Esposito, che per la prima volta si calava nei panni di Filippo, con una voce assolutamente adatta, un accento perfetto per ogni situazione e un giuoco scenico che andava dal cenno autoritario e brutale alla fragilità e impotenza più totali.

Piero Pretti s'incrociava anch'esso per la prima volta nella sua carriera con il protagonista con buoni risultati, una voce forse ancora un po'chiara per la parte ma con ottima linea di canto e apprezzabili doti sceniche. Maria Agresta ci offriva i suoi noti aspetti positivi (i bei filati) e alcuni non altrettanto godibili (dei gravi poco naturali e parecchi acuti metallici). La sua regina era bella e molto presente. Marco Spotti cantava un discreto Inquisitore che cresceva come personaggio dal lato interpretativo. Poco e non buono da dire sul Frate di Leonard Bernad, che non sembrava neanche un vero basso. Il ruolo non è grande ma mette subito a nudo le carenze tecniche e timbriche dei cantanti. Del grande successo si è detto.

Jorge Binaghi

2/12/2019

La foto del servizio è di Michele Crosera.