RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La prima crociata del ventinovenne Verdi

I Lombardi alla prima Crociata di Verdi alla Fenice di Venezia

Adolescente ascoltai e riascoltai alla fine degli anni Cinquanta I Lombardi alla prima Crociata di Verdi della RAI di Torino, diretti da Fulvio Vernizzi. Pagano lo interpretava allora il grande basso friulano Plinio Clabassi (1920-1984), oggi da pochi ricordato. Fu la scoperta, attraverso la radio, di un avvincente primo Verdi al suo quarto cimento sulla scena (Milano 1843), che mi incanta tuttora. Pur riconoscendo la superiorità complessiva del più scaltro e sofisticato rifacimento francese che è Jérusalem (Parigi 1847), felice metamorfosi degli straripanti ed epici Lombardi , trovo più soddisfacenti questi ultimi sotto il profilo drammaturgico. Nella farragine di Temistocle Solera, che resta comunque un librettista squisito, abilissimo a estrarre dal “tassiano” poema omonimo in quindici canti di Tommaso Grossi (1826) le due ore abbondanti di azione teatrale, Pagano, il parricida pentito, è seguito dall'inizio alla fine in una coerente evoluzione drammatica. E il finale ultimo dei Lombardi non riserva la zoppicante agnizione di Jérusalem. A Parigi svaporò purtroppo quel commovente ritrovarsi in extremis nel perdono tra i due fratelli rivali, Pagano e Arvino, grazie alla provvida Giselda: un finale ultimo magistrale, che fin dalla prima volta mi strappa le lacrime. Ma questo raro primo Verdi non potrà non aver lasciato quanto meno perplessi gli spettatori esordienti, obbligati a fruirlo attraverso le lenti di codesto allestimento.

Si accaparra l'intera scena lo spoglio stanzone, concepito con scarsa fantasia da Massimo Checchetto, ora bianchissimo ora d'altro colore secondo quanto impartito dalle luci di Fabio Barettin, con varchi che si schiudono puntuali ai lati per l'andirivieni dei singoli e delle masse. Nulla suggerisce Milano e Sant'Ambrogio all'inizio e assai poco contraddistingue più avanti l'Oriente della Crociata. Quanto all'eremitaggio dell'ex parricida Pagano, non gli spetta la caverna prevista dal libretto, bensì il relitto di una camionetta. Quasi anonimi i costumi di Elena Cicorella, con abbondanza di donne soldato bene armate. Un'indeterminata attualizzazione per non cadere nell'“oleografico” della storia? Verso la conclusione il saccheggio e la distruzione di un baracchino di kebab allude allo scontro tra crociati e mussulmani. A che cosa alludano i due aitanti efebi che per ben due volte si denudano disinibiti non ce lo spiega la regia di Valentino Villa, prodigo peraltro di poco persuasivi chiarimenti nel programma di sala. Ma il compito di un regista, sembrerebbe, è quello di illustrare sulla scena lo spettacolo, null'altro gli si chiede.

Onore in ogni caso a un glorioso teatro come La Fenice, che non ha lesinato affatto nel predisporre un cast invidiabile. Sicuro, disinvolto, elegante e fantasioso, Sebastiano Rolli ha guidato l'eccellente orchestra veneziana attraverso l'irruenza e la passione dell'irresistibile partitura verdiana, offerta nella revisione critica curata sulle fonti da David Kimbell (semisconosciuto al di qua delle Alpi, il che non gli impedisce di essere, dalla sua Scozia, un autorevole specialista dell'opera italiana, di Verdi in particolare).

Nei Lombardi il protagonista Pagano, per vendicarsi di essersi visto preferito da Viclinda il proprio fratello Arvino, uccide per errore il padre. Maledetto da ognuno, a cominciare da sé medesimo, fugge in Palestina a espiare fra aspre penitenze il delitto. Qui giungeranno poi i crociati lombardi comandati da Arvino, la cui figlia, Giselda, è catturata dall'emiro di Antiochia, dove però si innamora contraccambiata del figlio dell'emiro, Oronte. L'eremita Pagano, senza farsi riconoscere, riesce a liberare Giselda e poi battezzerà il morente Oronte, ferito in battaglia. Al momento della conquista di Gerusalemme, Pagano, che si è battuto fino allo stremo a fianco dei crociati, svela, ormai agonizzante, la propria identità ad Arvino e si riconcilia col fratello.

Con quasi quarant'anni di carriera, dopo avere esordito neanche ventenne, Michele Pertusi continua a sbalordire. Nel canto e sulla scena si trasforma impeccabile di volta in volta nel personaggio interpretato: in perfetto agio nei ruoli seri come nei comici di Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi. Modula qui incisivo il suo morbido timbro, suadente nei chiaroscuri del grave, sempre fresco, vigoroso, cangiante: implacabile nel furore vendicativo che lo pervade all'inizio, commovente nella conversione maturata fino all'estremo respiro.

La nuova generazione ha comunque tutte le carte in regola: il soprano Roberta Mantegna, Giselda intrepida, tenera, vibrante fin nelle impennate di agilità e il suo robusto partner quale Oronte, il tenore Antonio Poli, puntuale con sentita passione e limpido squillo, ma anche il secondo tenore, Antonio Corianò, pregevole Arvino, da non perdere di vista. Né i ruoli minori deludono: anzitutto il Pirro del basso Mattia Denti con Marianna Mappa (Viclinda), Christian Colla (Priore), Barbara Massaro (Sofia) e Adolfo Corrado (Acciano). Quanto al Coro della Casa, diretto da Alfonso Caiani, oltre a ridare degno lustro a quei memorabili ‘Gerusalemme' e ‘O Signore dal tetto natìo' scolpiti nella nostra memoria, si è validamente disimpegnato nell'arco dei quattro atti, sempre puntuale e duttile in quel caleidoscopio di atmosfere, situazioni e accenti, in cui il ventinovenne delle Roncole decisamente non è mai colto alla sprovvista.

Fulvio Stefano Lo Presti

20/4/2022