RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Liegi il Don Carlos francese

come Verdi comanda

Quando, a metà degli anni Sessanta dell'800 Verdi concepisce, compone e poi vara il suo Don Carlos – andato in scena all'Académie Royale de Musique (Opéra) di Parigi l'11 marzo 1867 – il grand opéra, tutt'ora in voga nella pienezza delle mastodontiche dimensioni, specialmente al di là dei confini della Francia, si avvia al contempo verso un glorioso seppur lento epilogo. Dopo il battesimo parigino, il colosso verdiano nel frattempo eseguito dovunque in varie versioni, non ritornerà su una scena francese prima del 1911 (a Parigi ma non all'Opéra). Più o meno consapevole di avere creato un grand opéra che è probabilmente l'apoteosi del genere, anche in risposta ai giganti di Meyerbeer da poco scomparso, il Bussetano ha tutto l'interesse, non soltanto materiale, di assicurare alla sua creatura un avvenire, donde le varie versioni che si alterneranno per un ventennio. Certo senza Meyerbeer, quello del Prophète (1849), ed anche Donizetti, quello di Dom Sébastien (1843), non sarebbe facile immaginare Don Carlos.

Il primo Don Carlos in cinque atti su libretto di Joseph Méry e Camille Du Locle, corredato dell'irrinunciabile balletto al 3° atto (non incluso in quest'edizione liegese), trae ispirazione dall'omonima tragedia di Friedrich Schiller (1787) nonché da altre fonti (Saint-Réal, Otway, Cormon). Quando Verdi lo manda in scena, già al ventiseiesimo titolo del suo catalogo, non ha che 53 anni (ma oggi lo si “gratifica” ben volentieri con immagini dell'età più avanzata). Più logico sarebbe sembrato suddividere l'azione in un Prologo e quattro atti, in quanto il primo atto è ambientato in Francia, a Fontainebleau, e precede di un certo lasso di tempo i successivi concatenati e situati in Spagna.

Nel Don Carlos, dove un'appropriata tinta sombre prevale sulle numerose oasi liriche, tra passioni private frustrate e pubblici contrasti violenti, potere assoluto dispotico ma solitario, fanatismo religioso inflessibile e cruento, in sapiente alternanza e mescolanza, Verdi maneggia abilissimamente scalpello e cesello nella strumentazione, sfoggiando una ricchezza motivica e timbrica sfaccettata e avvincente, che ben si accoppia con una vocalità idiomaticamente francese calzante di volta in volta come un guanto all'indole dei diversi personaggi.

L'edizione completa dell'Opéra de Wallonie (ORW), che oserei considerare quasi esemplare, si avvantaggia dell'impianto tradizionale, storicamente plausibile quanto avvertito, di Stefano Mazzonis, che si giova della scenografia, sobriamente fedele all'epoca con cambiamenti a vista, di Gary Mc Cann, nonché dei costumi spagnoleggianti e sontuosi di Fernand Ruiz, sotto le luci abbastanza cupe e raggelanti di Franco Marri (il critico della “Libre Belgique”, che ha situato la vicenda alla fine del XVII secolo con più di cento anni di ritardo vada a ripassarsi la storia!). Ben coordinati i movimenti dei singoli, distintamente messi a fuoco, e delle masse in ambienti suggestivi: la foresta di Fontainebleau, dove Carlos ed Elisabeth s'incontrano in incognito e si scoprono, il Monastero di Saint-Just (Yuste) dove s'incontreranno per l'ultima volta presso la tomba dell'imperatore Carlo V, padre di Filippo II, i giardini reali, lo studio di re Filippo, la prigione, la piazza di Valladolid dove sfila il corteo reale, mentre vengono condotti al supplizio gli eretici: pochi tocchi essenziali bastano a rendere quest'ultimo particolare davvero raccapricciante.

Affidare concertazione e direzione di un'opera vasta e complessa quale Don Carlos a un direttore con l'esperienza e il prestigio di Paolo Arrivabeni è più di una solida garanzia: da lui guidata la valente Orchestra dell'ORW valorizza in ogni sfumatura il poderoso affresco verdiano.

Protagonista è il veterano tenore Gregory Kunde, che, se non ha più lo smalto degli anni ruggenti, non ne ha perduto il vigore, che gli consente di cimentarsi tuttora con felice esito nei ruoli più vari quanto impervi. Il suo Infante di Spagna fresco ed elegante, ma anche sofferto od irruento, lo rende degno protagonista. Gli fa da contraltare il soprano Yolanda Auyanet, quale Elisabeth, dolcissima, vibrante, intrepida regina. Che cosa desiderare di meglio negli altri importantissimi ruoli? Il basso Ildebrando D'Arcangelo disegna, con un timbro spavaldo e sontuoso, un Filippo II gagliardo, aspro e perentorio pur tra le spire del dubbio e del sospetto. Gli sta di fronte l'insormontabile Grande Inquisitore, di Roberto Scandiuzzi, orrendo vegliardo cieco, ammantato di un rosso non già cardinalizio ma demoniaco, che mozza il respiro nel duello tra i due bassi: confronto-scontro tra due voci scure superbamente differenziate. Unico belga nei ruoli principali, il baritono Lionel Lhote, leale e generoso Marchese di Posa, opulento ed espressivo. La seconda donna, il mezzo soprano Kate Aldrich, incarna con smagliante emissione una Principessa d'Eboli sensuale ed esuberante quanto intrigante e vendicativa. Al basso Patrick Bolleire, è toccato impersonare autorevole l'enigmatico, ieratico monaco, presente in disparte sin dall'inizio, che nella surreale conclusione si rivela essere il defunto Carlo V, con scettro e corona, e sottrae alla giustizia umana l'Infante trascinandolo via con sé. Negli altri ruoli hanno ben figurato Caroline de Mahieu, Maxime Melnik, Louise Foor, Patrick Delcour, Roger Joakim, Emmanuel Junk, Jordan Lehane, Samuel Namotte, Arnaud Rouillon, Alexei Gorbatchev e Pauline Maréchal. Il Coro della Casa, diretto da Pierre Iodice, si è brillantemente disimpegnato nel tour de force della sua partecipazione.

Fulvio Stefano Lo Presti

28/2/2020