RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Politico, anzi intimo

Tragedia epica, politica, ampiamente affrescata? Oppure dramma “privato”, claustrofobico, di coppia? Nelle sue divagazioni shakespeariane (una manciata di figure minori, spazio per occasionali digressioni ironiche) come nella più scabra sintesi verdiana, Macbeth ammette entrambe le soluzioni: e se i grandi registi hanno quasi tutti spostato l'ago della bilancia ora sull'uno ora sull'altro versante, Michael Thalheimer – uno dei maestri del Deutsches Theater di Berlino – li fa convivere perfettamente in questo spettacolo nato ad Anversa la scorsa stagione e ora approdato a Città del Lussemburgo. C'è da scommettere che non lo vedremo mai nei teatri d'opera italiani, dove sono considerate regie “d'autore” quelle del pensiero debole e modaiolo, o del trash gabellato per progressismo.

I personaggi agiscono all'interno una scatola scenica nuda, stilizzata (un ampio catino visto in sezione), eppure oltremodo proteiforme nei sottotesti che veicola: vasca da bagno in cui Lady Macbeth tenta di lavare il sangue di cui si è macchiata; conca in cui ciascuno sprofonda senza riuscire a risalirne la china; catino absidale evocante una visione addirittura cristologica della tragedia, con il cadavere di Banco spogliato dai sicari che, nudo e insanguinatissimo, riprende vita appropriandosi della corona estorta con l'omicidio e trasformandosi in un Cristo dolorosamente allucinato, tutt'altro che redentore.

Thalheimer e la sua squadra di collaboratori impaginano dunque un Kammerspiel visionario e splatter – senza però alcun compiacimento, anzi sempre sotto il segno d'una teatralissima finzione – dove pure i “buoni” assumono contorni tutt'altro che limpidi: oltre a vendicare la morte dei suoi cari, Macduff qui mira a succedere al tiranno, mentre Malcolm non è solo lo spodestato successore del monarca assassinato, ma un arrampicatore che sfrutta i rivoltosi per recuperare il trono (formidabile il loro strapparsi vicendevolmente dalle mani la corona dopo la morte di Macbeth). E anche il piccolo Fleanzio – il figlio di Banco che, secondo la profezia delle streghe, un giorno regnerà sulla Scozia – è ormai all'interno del meccanismo e, crescendo, non sarà migliore degli altri: l'ultimo primo piano Thalheimer lo riserva a lui, sorridente e con la coroncina in testa. Ma che, proprio mentre cala il sipario, vomita sangue.

All'interno di quest'orgia del potere, d'ineffabile ferocia e cafona com'è nel dna dei potenti (la scena del brindisi ricondotta a una turpe carnevalata è un altro momento magico dello spettacolo), il regista costruisce però un secondo binario narrativo: che ora marcia in parallelo al primo e ora vi s'incrocia. Macbeth e la Lady, sembra suggerirci Thalheimer, sono – prima che due assassini – una coppia: e il loro vissuto intimo, la loro personalissima storia d'amore, l'eros disperato cui si talvolta si aggrappano vengono restituiti con plasticità teatrale non minore di quella riservata al versante politico. Resterà negli occhi il bacio di lei dopo la frase omicida «Immoto sarai tu nel tuo disegno?»; e il Pietà, rispetto, amore intonato dal baritono non in solitudine, ma abbracciato al corpo senza vita della protagonista, è un coup de théâtre impressionante.

Craig Colclough e Katia Pellegrino, d'altronde, sono due autentici cantanti-attori, capaci di flettersi a ogni sfumatura del disegno registico. Lui – corpulento ma atletico, barbarico ma tormentato – restituisce fisicamente e vocalmente le contraddizioni di Macbeth, con il viatico di uno strumento massiccio e risonante, talvolta in difetto di rotondità e “legato” ma sempre infallibile nella scolpitura del fraseggio, nella plasticità del declamato, nell'individuazione della parola scenica: quasi un Tito Gobbi declinato attraverso il modello di Gabriel Bacquier. Lei, da tempo lontana dai nostri palcoscenici, è ancora ricordata dal pubblico italiano come soprano lirico: nel frattempo la voce si è mutata, Violetta e Luisa Miller hanno ceduto il passo a Norma e Abigaille, ma è stata soprattutto l'interprete a trasformarla. Il registro superiore appare sempre penetrante, mentre l'ottava bassa risulta assai più costruita, con affondi gravi spesso “inventati”: trasformandosi però – qui viene in mente la parabola di Renata Scotto – in plusvalore espressivo. E la sua Lady insieme diafana e dark, implacabile e indifesa resta un ritratto memorabile e frastagliatissimo.

È difficile, poi, trovare un Banco che non venga offuscato da Macbeth: ma qui c'era. Lo spessore coprotagonistico con cui Tareq Nazmi affronta il duetto col baritono e i mortali, presaghi sospetti del suo Come dal ciel precipita mostrano un basso di grandissima personalità timbrico-interpretativa, che la regia di Thalheimer proietta poi in una dimensione addirittura mattatoriale quando Banco continua ad agire in palcoscenico dopo la morte. Non così a fuoco, ma corretto e squillante, il Macduff di Najmiddin Mavlyanov; e il Malcolm di Michael J. Scott è ben più d'una spalla. Tutti al seguito di una bacchetta – Gustavo Gimeno, direttore musicale della Filarmonica lussemberghese – che “pensa” sinfonico anche quando dirige operistico: il che si traduce in un Preludio di ampie campate, ma più sensibile allo slancio fonico che al ripiegamento rarefatto, e in tempi spesso indugianti, non sempre ideali al sostegno delle voci. Diciamo un Macbeth novecentesco: cosa che per l'opera più atipica e singolare di Verdi, comunque, non è un difetto.

Paolo Patrizi

14/11/2019

La foto del servizio è di Annemie Augustijns.