Macerata
Il Trovatore in concerto
Di tutta la programmazione del Festival di quest'anno, a parte altre manifestazioni ed evento vari e non solo di musica classica, si riusciva a salvare Il Trovatore benché con solo due recite in forma di concerto. A prima vista non sembra Verdi, e questo titolo in particolare, l'autore ideale para una versione senza un qualsiasi allestimento, ma la forza della musica (malgrado alcuni problemi) e l'interpretazione di uno dei principali s'imponevano a tutti gli ostacoli. Ci sono state anche le belle luci di Ludovico Gobbi e interessanti immagini fotografiche di Ernesto Scarponi.
Non è stata una versione indimenticabile, tutt'altro, ma si ebbe la fortuna di contare, inaspettatamente, sull'Azucena di Veronica Simeoni, cantata, fraseggiata e perfino interpretata con alcuni gesti e lo sguardo in modo ammirevole. Forse alcuni preferiranno voce più scura, e con tutto diritto, e altri un'interpretazione più rovente, e credo che sbaglino, perché a zingara non è Ulrica, ma anche in quest'ultima la tradizione – con tanto di verismo e gravi di petto aperti ed esagerati – non è buona consigliera. Qui abbiamo avuto la vera protagonista dell'opera di Verdi, il personaggio che ha la stessa modernità di Rigoletto e Violetta, e cioè una creatura tormentata, spezzata dalla vita, in preda a rimorsi e allucinazioni, già dalla geniale ‘Stride la vampa' fino al sogno impossibile di ‘Ai nostri monti', e per di più con voce omogenea, senza effettacci, e con un acuto nella “stretta” del grandissimo duetto dell'atto secondo che non solo è stato in assoluto la miglior nota della serata ma che era pieno di espressività e ci spiegava la ragione drammatica di Verdi, e non un ‘do' per far piacere o mettere in difficoltà l'interprete. Bravissima, ed è da notare che il ruolo non lo cantava da sette anni e che aveva lavorato ultimamente per un programma a Martina Franca cui ha dovuto rinunciare.
I problemi venivano in primis dalla bacchetta del giovanissimo Vincenzo Milletarì, di cui si dicevano meraviglie. Oimè, il Maestro sembra patire del terribile male che dilaga tra i direttori d'orchestra (ultimamente in particolare di origine italiana) che vogliono a tutti i costi ritrovare con una rilettura tutta personale (se non addirittura aggiungendo qualcosa di nuovo che hanno scovato a furia di frugare negli scaffali dei ricordi quando no dei rifiuti) il vero senso di una partitura. E così dalla prima nota il dramma viene distrutto con tempi e silenzi assurdi. Per di più c'è un personaggio più penalizzato degli altri con questo tipo di scelte: la Leonora di Roberta Mantegna. Sono sicuro che il giovane soprano può farlo sicuramente molto meglio di quanto ha potuto dimostrare adesso: i cantanti, anche se non si tratta di qualche ‘star' che si sceglie il maestro che più le conviene, dovrebbero poter ricordare a maestri – e anche registi – che il loro fiato non è un optional che hanno l'obbligo di avere lì a disposizione delle originalità o meno.
Massimo Cavalletti è sempre una voce grande e di bel colore, ma come sempre afflitta da una forma di cantare sempre più inadatta e piena di vizi – gli acuti sono un incubo – senza che possa parlarsi di un qualsiasi fraseggio (altro che parola scenica !).
Luciano Ganci sembra, come già nell'Aida di poco fa a Barcellona, seguire gli stessi passi. La cosa migliore, a parte il timbro da vero tenore, è l'acuto, e la famigerata ‘pira' serviva a confermarlo. Per il resto spinge quasi tutto il tempo: ‘Deserto sulla terra' se non si canta dall'interno com'era il caso non ha bisogno di un canto a squarciagola – i trovatori, come credo si sappia, non cantavano così (perfino Leonora lo dice: versi MELANCONICI un trovator cantò), con il risultato di essere di una monotonía esasperante e quando cerca di variare e sfumare un po' il suo canto il risultato è povero o, peggio, discutibile, e non bisogna andare a scomodare Bergonzi per ricordare come va cantato Manrico.
Corretto ma privo di rilievo il Ferrando di Davide Giangregorio (troppo basso per Masetto e non abbastanza basso per questo ruolo), mentre invece molto interessante il tenore Didier Peri nei panni non facili – anche se il personaggio non ha molto da cantare – di Ruiz. Discreti gli altri. Bene l'orchestra del Petruzzelli di Bari e buono il lavoro dei Martino Faggiani con il coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini”, ma va notato che qui le voci maschili risultavano superiori a quelle femminili.
Molto pubblico (sempre considerate le limitazioni del caso) e buon successo.
Jorge Binaghi
6/8/2020