Madrid
Il difficile Trovatore
Il Teatro Real non ha paura e offre perfino tre compagnie diverse (ma solo due tenori) per l'opera facile da fare con quattro grandi cantanti. Facile non lo è mai stata, e certamente non sono questi i momenti migliori per riunire quattro assi. Ho visto due dei tre cast, i più ravvicinati nel tempo.
Va subito detto che di eccezionale c'è stato solo il Conte di Ludovic Tézier ancora più affascinante che tre anni fa a Parigi, con tutte le carte in regola per dare un'interpretazione di riferimento. Basti dire che la parte sembrava davvero facile senza tradire il minimo sforzo, con un fiato e un legato esemplare (e aveva una tracheite).Artur Rucinski non ripeteva la buona prova di due anni fa a Barcellona. La voce cambia di volume e di punti d'impostazione quando arriva all'acuto ma soprattutto corre poco.
Il protagonista di Francesco Meli vanta un timbro bellissimo e un centro di miele, ma l'acuto è corto e a forza di voler portare Manrico verso il belcanto (troppi filati, non sempre timbrati) lo priva totalmente dell'aspetto eroico che dovrebbe pure avere. Piero Pretti è un cantante deciso – sul versante diciamo più tradizionale – e i due ultimi atti sono buoni, ma nei due primi non c'è quasi colore e nemmeno squillo.
Maria Agresta (Leonora) è una brava cantante, ma non si capisce perchè non accetti il suo carattere da lirico pieno e insista con ruoli che la possono mettere in difficoltà. Il grave non esiste o è più che sgradevole e aperto. Il centro è irregolare e adesso in certi momenti il suono è brutto. Bene gli acuti e i non molti piani – che però sono di colore diversissimo; le agilità sono corrette ma più accennate che realmente eseguite. La voce di Hibla Gerzmava è enorme e scura, con un vibratello in acuto, un'assenza totale di mezzevoci e le agilità sono scarsissime – e per fortuna l'orchestra l'aiutava in ‘Tu vedrai che amore in terra'. Ekaterina Semenchuk cantava Azucena con meno volume ma più sfumature che a Parigi ed era un'artista intensa, pur se un po' sopra le righe. Marie Nicole Lhemieux non è una vera voce verdiana, e qualche acuto era stiracchiato, ma aveva un grave imponente e si buttava con tutte le forze nel ruolo della zingara.
Roberto Tagliavini è l'unico basso previsto per Ferrando e le due serate di seguito cantava in modo inappuntabile e con bella voce. Bene i comprimari: Cassandre Berthon (Ines), Fabián Lara (Ruiz) e Moisés Marín (Messo). Il coro preparato da Andrés Maspero era al solito buon livello, come anche l'orchestra del Teatro sotto la bacchetta di Maurizio Benini, molto competente se non proprio ispirata e con tendenza a tempi rapidissimi. Le cabalette non avevano una ripresa e in questo caso trovo che sia stata una buona decisione.
Il nuovo allestimento, una coproduzione con la Danimarca e Montecarlo, per la regìa di Franciso Negrín voleva spiegare tutto e più e così avevamo diritto, dall'inizio alla fine, anche alla madre di Azucena (Sophie Garagnon) e al figlio vero (Saúl Esgueva/Eneko Galende) più una serie di attori e di bambini ingombranti, che seguivano a Ferrando come pubblico della narrazione iniziale o allievi di scherma nel terzo atto. I cori erano uno dei punti più deboli, vestiti non si sa da cosa, strisciando sul palcoscenico o rimamendo immobili, e capire il celebre coro del secondo atto diventava davvero complicato poiché le femmine erano maghe o streghe e gli uomini ancora devo scoprirlo. Bei vestiti più o meno medioevali , luci vistose ma più di una volte fine a sé stesse.
I cantanti avevano evidentemente delle indicazioni precise di regìa che cercavano di eseguire nel migliore dei modi, e questo è un elemento positivo. Molto pubblico e molti applausi.
Jorge Binaghi
21/7/2019
La foto del servizio è di Javier del Real.
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