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Parma

Il Macbeth parigino di Verdi

Il Festival Verdi, anch'esso con delle importanti modifiche dovute alla situazione della pandemia, veniva inaugurato con due recite in forma di concerto della versione francese (1865) della geniale opera del Maestro, che, così, non si sentiva da allora. L'impressione che in alcuni momenti sorprende o sconcerta grazie ad alcune alterazioni imposte proprio dalla lingua è certamente positiva ma non penso che si potrà sentire di nuovo se non, appunto, in un Festival.

Malgrado l'esecuzione all'aria aperta (Parco Ducale, un vero e proprio sforzo a sé) rendesse inevitabile l'amplificazione non può dirsi che il fatto disturbasse.

Il pubblico si è presentato in buona quantità anche se non riempiva lo spazio e si mostrava – tranne qualche eccezione – molto attento e non c'erano da lamentare le solite tossi né i soliti cellulari (i rumori della città non si potevano sopprimere ovviamente) e i flash delle foto erano scarsi. Il coro del Teatro Regio era all'altezza della propria fama e di quella del suo istruttore (Martino Faggiani), perfino quando una corista sveniva nel bel mezzo del grande coro che apre il quarto atto. L'Orchestra Filarmonica Toscanini raggiungeva un ottimo livello sotto l'energica bacchetta di Roberto Abbado che, nonostante alcuni tempi molto mossi e rapidi, offriva un'eccellente lettura di una partitura che chiaramente conosce a fondo.

Tra i cantanti c'erano Riccardo Zanellato (un buon Banquo), Giorgio Berrugi (un Macduff non molto brillante), Natalia Gavrilan (interessante Comtesse), ma anche corretti interventi di, fra altri, David Astorga (Malcolm) e Francesco Leone (Médecin).

Pochi giorni prima della prima il soprano previsto per il pesante ruolo della Lady doveva venire sostituito (i motivi mi sfuggono). La scelta di Silvia Dalla Benetta (che ha avuto pochi giorni per prepararsi) era per fortuna azzeccata: la voce della cantante non è per niente bella (fatto che, in questo caso concreto, come si sa, conta poco), può suonare anche opaca e metallica, non ha dalla sua la padronanza del trillo e ancora meno di quel fatidico re bemolle con cui esce definitivamente dal palcoscenico, ma si tratta di un'artista molto musicale e intelligente che sa poi mettere in rilievo il testo, anche se non mi è sembrata adeguata la lettura della lettera troppo veloce e registrata previamente. Ma dove la direzione del Festival si dimostrava accorta e fortunata era nella scelta di Ludovic Tézier per il protagonista: non solo ci troviamo davanti a uno dei pochi veri grandi baritoni di oggi e già notevole interprete della parte, ma con il suo francese dava una lezione immensa di espressività vocale (penso alle mezzevoci ma non solo) perfino superiore alla sua interpretazione del ruolo in italiano. Applaudito lungamente nella grande aria e dopo la scena delle apparizioni (e naturalmente nei saluti finali), il suo canto era sempre Verdi allo stato puro, e mi si consenta di rilevare il grande monologo dell'atto primo – che non consente l'applauso – molte frasi del quale facevano venire i brividi.

Jorge Binaghi

22/9/2020