Giovanna d'Arco a Parma 
«Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute». Così Dante all'inizio della Commedia trova modo di citare la regina dei Volsci. Ma se Dante non è l'Alighieri, se all'Italia sostituiamo la Francia e se la vergine guerriera non è la «Cammilla» di virgiliana memoria, eccoci di fronte alla Giovanna d'Arco di Verdi, che nella regia di Emma Dante inaugura la stagione operistica 2025 del Teatro Regio di Parma.
Seguiranno Il barbiere di Siviglia, La bohème, Andrea Chénier e le stagioni di danza e concerti. Intanto però il settimo titolo del catalogo del genius loci non lo si vedeva in scena da un po', nemmeno qui, potremmo dire, a casa sua: dopo il debutto su questa piazza Verdi vivente, nel dicembre 1858 gennaio 1859, tanto per orientarci dopo l'Aroldo e col Ballo in maschera sul trampolino di lancio, al Regio è stato ripreso soltanto altre tre volte: nel 1980, per i centocinquant'anni dall'inaugurazione del Teatro, nel 2008 e durante il Festival del 2016. Eppure, la Giovanna d'Arco, negletta dai teatri e bistrattata dalla critica (o almeno da certa critica), venne al tempo definita da Verdi stesso «la migliore delle [mie] opere senza eccezione e senza dubbio» (lettera a Piave, 16/02/1845; vabbè che poi lo disse anche del Macbeth); e sicuramente su questa «operona», come la chiama il suo famulo Emanuele Muzio, Verdi ci puntava, per farne una sorta di grand opéra all'italiana. E al volgere dei suoi centottant'anni (il varo avvenne il 15/02/1845 alla Scala, dove tornò nel 2015 per un altro compleanno a cifra tonda), il Regio la riprende appunto per la quinta volta.
Nonostante il pieno successo di pubblico che la accoglie alla fine della prima, venerdì 24 gennaio 2025, Emma Dante sigla una regia che da un lato vuole esulare dal didascalismo pedissequo, sovrapponendo significati altri fare un'opera com'è stata concepita? Ma quando mai? , dall'altro in parte ci ricade con riferimenti riconoscibili, e nel complesso non nuoce (ma nemmeno entusiasma) se non altro perché non altera l'impianto drammaturgico di base ma nemmeno vi aderisce in toto; semmai lo rivisita; e persuade solo in parte proprio per questa sua anonimità. O meglio, che sia anonima, no: una sua identità vuole averla; ma le dichiarazioni rilasciate nella monografia di sala si riducono a un mero elenco di ciò che accade in scena, senza scioglierne il significato, che resta da decifrare. E l'identità sfugge.
L'idea è, credo, quella di far coesistere una visione in qualche modo catartica e palingenetica della guerra con la psicologia complessa e traviata della protagonista. Al primo filone si ascrivono i soldati che entrano in scena già durante la Sinfonia, malconci e claudicanti, e dai cui arti mutilati sorgono fiori, simbolo di rinascita accomunarli al giglio di Francia sarebbe troppo: piuttosto ai fiori metaforici della pace che sorgono dagli orrori della guerra. Qualcosa che ricorda il Mettete dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti e il pacifismo della beat generation, impressione corroborata dal muro tappezzato di foto di volti, forse ex voto, forse ricordo delle vittime. Come nelle altre opere su libretto di Temistocle Solera, anche questa richiede diversi cambi scena e procede a pannelli separati. I fiori degli arti dei soldati, come le croci sparse a livello del terreno su una collina erbosa, aprono il prologo e si ripropongono in forma di letto funebre su cui Giovanna viene deposta alla fine. Stanti le premesse, l'estrema culla floreale coniugherebbe l'omaggio alla defunta e il sacrificio dei tanti soldati che con lei e per lei si sono battuti. Se i costumi di Vanessa Sannino vogliono rimandare a uno stilizzato Quattrocento, fatto di cotte, corazze e morioni anche se Giacomo mostra agli Inglesi una foto (una foto
) della figlia ma anche di improbabili guardinfanti grigiastri di soldati e soldatesse festanti, agitati con mossette un po' ridicole, le scene di Carmine Maringola oscillano tra la riproduzione di luoghi reali, come la foresta dai tronchi maestosi, che i giochi di luce di Luigi Biondi, serviti con mobili lumi cilindrici e sferiformi contro il fondale nero, contribuiscono a connotare come la «selva orrenda» del libretto (che ci facciano degli uomini insaccati in bianchi lenzuoli penduli dai rami, come crisalidi spettrali, o giganteschi bachi da seta, non si sa), e la proposta di luoghi-non-luoghi, come gli archi a tutto sesto concentrici al centro del palcoscenico, tutti infiorati in bianco e rosa carnicino a formare una sorta di pergolato, questo per rendere il «giardino nella Corte di Reims» essenziale, funzionale ma po' decontestualizzato per quel suo emergere dal fondale ancora una volta nero e senza altri riferimenti o una gabbia dorata per la reclusione di Giovanna anche qui, decontestualizzata per la sua presenza esclusiva al centro del palcoscenico, su fondo sempre nero; Giacomo sopraggiunge a liberare la figlia aprendola, ma non si capisce perché debba rinchiudervisi lui: forse a simboleggiare la prigionia della sua fede? Luoghi-non luoghi che, stilizzando la cattedrale di San Dionigi, lo fanno con altri archi a tutto sesto concentrici, formati stavolta da colonne, su un azzeccato contrasto di ambra e nero. Al fondo spicca una croce.
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Ed è quella croce che permette di agganciare il secondo filone, quello della psiche di Giovanna. Lungo tutta l'opera alle voci di Giovanna viene data forma fisica con un corpo di ballo, giovani menadi rosso vestite che le si dimenano attorno come Villi demoniache (coreografate da Manuela Lo Sicco) e contro cui ella cerca di combattere brandendo uno spadone a due mani, alla luce di quel crocifisso. Piace la trovata nel prologo di farla sommergere dai soldati che le si avventano sopra per tagliarle la fluente chioma fulva (che assieme alla lunga veste rossa ricorda un'estetica prefaffaellita alla Waterhouse): da questi maldestri coiffeur risorge la Giovanna guerriera di cui si innamora Carlo, ma non si comprende perché lui le si inginocchi davanti, quando lei prende il posto della statua di «una Madonnina mitragliata dai cui fori uscirà la luce» (ipsa dixit) posta in una nicchia dentro il tronco di un albero e spostata a vista da degli uomini di fatica, che lungo la recita spostano anche altri oggetti di scena. Particolari come rosse bandiere sventolanti, un telo nero agitato sullo sfondo, l'alter ego di Giovanna ancora foltamente fulvicrinita mentre quella vera canta O fatidica foresta e il bianco cavallo scheletrito goffamente mosso da mimi, con costole a vista che da un lato sembra strizzare l'occhio al serpentone del Rheingold scaligero di McVicar, dall'altro ricorda, se si è aulici il Trionfo della Morte di Palermo, se si è prosaici il Ronzinante di Don Chisciotte, li avremmo volentieri evitati
Scatta una punta di campanilismo nel leggere che la nuova edizione critica qui eseguita porta la firma di Alberto Rizzuti, professore ordinario presso l'Università di Torino. Pur ricostituendo però questa edizione il testo intonato da Verdi, al Regio si opta per quello alterato dalla censura, pubblicato da Truffi nel 1845, in cui «Dov'è Maria» diventa «Dov'è la Pia» o «Tu che all'eletto apostolo», ovvero San Pietro, diventa «Tu che all'eletto Saulo», e le catene infrante sarebbero non più quelle del carcere di Cefa, ma quelle della cattività pagana di Paolo. L'argomento era già stato affrontato da Rizzuti in «Nuove fonti per la Giovanna d'Arco» (in Atti del Convegno Internazionale 2001) e in diversi altri saggi. Se può apparire come curiosità storica, per toccare con mano come lavorasse lo scalpellino censorio dell'epoca, ad oggi la scelta di ripristinare il testo censurato non riscuote molto favore; ma dove altro avrebbe potuto aver luogo tale operazione, se non nel cuore della cultura verdiana?
La partitura, affidata alla bacchetta di Michele Gamba, viene valorizzata da una direzione asciutta e tesa, specie nelle chiuse dei numeri, ma non precipitosa, anzi, con un ritmo plasmato attorno ai suoi elastici tempi narrativi. Se in passato Gamba non ha entusiasmato per letture poco centrate di altre pagine operistiche e non, qui si riscatta con scelte direttoriali e di concertazione indovinate ed equilibrate, e alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini fa scaturire dalla buca un suono orchestrale robusto, che fa di tutto per evitare il tanto aborrito effetto banda e, tolte alcune asprezze iniziali nella Sinfonia, in cui ancora l'intesa direttore-orchestra sembra dover carburare, ci riesce con buon esito e adeguate sottolineature solistiche. Si plaude così alle duttili terzine dei legni, che già preludono nel loro vorticare alle stregonesche terzine del Macbeth, o alla plasticità espressiva degli archi, i cui sommessi tremoli valorizzano ad esempio l'Introduzione dell'atto primo, dove sorprende di ritrovare un chiarissimo anticipo dell'ancora molto futuro Dies iræ.
A parte il Coro del Regio, che non viene meno alla sua fama e si conferma anche qui garanzia di qualità, grazie alle premure del sedulo Martino Faggiani, chi davvero stravince è il cast. Luciano Ganci dà corpo e voce a Carlo VII. E che voce: solida, calda, piena, mai sforzata e dotata di un particolare squillo brunito (che nel suo caso non è un ossimoro) e di una morbidezza che accentua il lato umano del personaggio, dalla fremente e delicate Sotto una quercia parvemi alla più trasognata Quale più fido amico, dove sfoggia anche apprezzabili mezze voci, fino alla più eroica e svettante Pondo è letal, martiro, sensibilmente variata nella ripresa. Ottime anche le scene d'assieme risolta magnificamente la scena della discolpa di Giovanna, per non parlare dei duetti e buona la prestazione attoriale.
 Ma se su Ganci si sapeva di andare sul sicuro, la vera rivelazione è stato Ariunbaatar Ganbaatar, baritono di impressionante forza comunicativa grazie a uno strumento granitico, tetragono, scuro e timbrato, cui si aggiunge una evidente cura per il fraseggio e per le legature. La dizione infatti è molto chiara, l'articolazione intellegibile, e il paragone con l'altro grande baritono mongolo ora in circolazione, Amartuvshin Enkhbat, non può che trovare rispondenza non solo per la comune provenienza geografica, ma anche per una simile impostazione vocale: qui una voce di timbro appena un poco più chiaro, meno vibrante ma più cupa, e di bel volume grazie anche a una cassa di risonanza notevole e dimensioni fisiche non indifferenti, ma di base una grana e una qualità comparabili. Uno studio appena più approfondito su alcuni aspetti di tornitura e sarà pronto a condividere, se non a strappargli, lo scettro dei baritoni orientali ora più quotati. Evito apposta di enucleare gli interventi meglio riusciti, perché tutti si sono attestati su un livello più che convincente.
E convince, anche se con riserve, Nino Machaidze. Il soprano georgiano sfoggia sicura tempra da consumata professionista del canto, e attorialmente risolve la parte del rôle titre con convinzione, realismo e appropriatezza di movimenti, così come con appropriatezza di accenti intona la sua parte. Si riconoscono buon scavo di parola ed emissione ben proiettata. Difetta un po' la rotondità della voce, in un timbro asprigno che talvolta punge negli acuti: spigolosità sicuramente migliorabile nel corso delle prossime recite. La sua parte è lunga, complessa, sfaccettata: è perciò ammissibile qualche passaggio da perfezionare; le qualità richieste per questo ruolo spaziano molto, ed è in questa versatilità che Machaidze trova modo di differenziare la sua prestazione, dalla sdegnata, fiera e dolente scena Oh ben s'addice questo, seguita da una Sempre all'alba ben fraseggiata e morbidamente ornata nei gorgheggi, all'accorata O fatidica foresta; ma basterebbe confrontare poche note di Oh pietade!
Io più non sono con tutta la scena prima dell'atto terzo, per sincerarsi della varietà di sfumature infuse alle varie pagine.
Non da meno sono i comprimari, un sonoro Francesco Congiu, già allievo dell'Accademia Verdiana qui impegnato nel ruolo di Delil, e il pertinente e risonante Krzysztof B aczyk nel ruolo di Talbot, fervidamente applauditi assieme a protagonisti, coro, direttore e gruppo registico da un Regio al limite della capienza con parecchie presenze straniere.
Christian Speranza
28/1/2025
Le foto del servizio sono di Roberto Ricci-Teatro Regio di Parma.
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