RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Muti mascherato a Torino

Ah, questi paggi! Mai che ne facciano una giusta. Cherubino fa montare in furia il Conte, Smeton accusa Anna, «senza paggi! senz'armi!» è uscito il Duca a caccia (e che caccia…); ci mancava solo Oscar a rivelare come è vestito Riccardo. E lo rivela proprio a Renato, il suo ex più fido amico, ora acerrimo rivale, da quando ha scoperto ch'egli tresca con la di lui moglie Amelia. Che poi venga fuori troppo tardi, dopo la stoccata ferale, che l'adulterio in realtà non è mai stato consumato, è quel girare il coltello nella piaga che non può mancare in un finale inevitabilmente e prevedibilmente tragico.

Cose da opera. Cose da melodramma. Cose da Un ballo in maschera, che a Torino va in scena al Teatro Regio a febbraio, a centosessantacinque anni esatti (mese incluso: precisione sabauda…) dal suo debutto al Teatro Apollo di Roma, il 17/02/1859, unico omaggio della stagione a Verdi – per il resto dedicata soprattutto al centenario pucciniano ma con notevoli e interessanti “ripescaggi”, vedi La juive d'apertura –, che si fregia di un ottimo impianto registico, di un cast di tutto rispetto e di una direzione di spicco: quella di Riccardo Muti alla testa dell'Orchestra e del Coro del Regio.

Regia didascalica ma non pedante, con alcune libertà, poche del resto, e che in molti casi se non in tutti esaltano il libretto di Antonio Somma. Andrea De Rosa firma uno spettacolo di grande teatralità. L'atto primo accoglie lo spettatore in un grande salone del palazzo di Riccardo a tinte cupe, un salone che alla luce del sole sarebbe forse splendidamente indorato e che invece, alla luce di «doppier presso a finir», opprime il palco d'ombra d'ocra spento. Lo spazio è limitato ai lati da balaustre lungo scale e portici di pietra, da cui hanno modo di affacciarsi, entrare e uscire comparse e cantanti, e in fondo da un uscio che immette in altre stanze. È appena terminato un ballo o una festa, in questa rivisitazione un po' decadente di De Rosa, e un altro diversivo è pronto a travolgere i cortigiani: la scena si divide in due, potremmo dire sul piano sagittale, e si passa all'antro di Ulrica. Dal fondo emerge il suo trono, collocato su tre gradini, mentre attorno a lei, pizia delle sorti umane, velata di nero fino a piedi poiché solo a lei è dato di sollevare il velame del futuro, nereggiano figure ctonie; a picco su di lei, tre potenti riflettori gettano fasci di luce, il resto in ombra. Ancor più suggestivo l'atto secondo, dove l'«orrido campo» è invaso dalla nebbia, che pian piano si dirada. Al centro, i tre gradini di prima, senza più il trono, sono ora il ceppo delle esecuzioni, e qualche corpo nero e immobile ancora permane nelle vicinanze. Tutto in ombra, sempre, eccezion fatta per uno dei riflettori di cui sopra. Per il terzo atto tornano le scenografie del primo, opportunamente ridisposte a formare le stanze di Renato, e poi il palazzo di Riccardo, con uno scalone d'onore per il ballo «splendidissimo».

Significativo il ricorso alle maschere (e non solo perché febbraio è il mese del Carnevale). A ben vedere, ciascun atto è percorso dalla tematica del doppio, dell'altro da sé: nel primo, Riccardo si traveste da pescatore; nel secondo, Amelia non scopre il suo viso (alla fine lo fa, ma al momento sbagliato!), e la sandiana “dama velata” (pare di rivedere una scena de I puritani) dovrebbe passare per un'amante occasionale di Riccardo; nel terzo, è superfluo menzionarlo. E allora, ecco De Rosa far circolare per l'opera quasi il “feticcio” della maschera, tra il napoletano e il veneziano: addirittura il sorteggio (che a Verdi sarà piaciuto mettere in scena perché gli avrà ricordato il suo giovanile Ernani) è sotto il segno delle maschere: non i biglietti coi nomi, ma le maschere indossate dal diabolico terzetto Samuel-Tom-Renato sono infilate nel sacco/urna. I congiurati, poi, hanno il viso celato dall'inizio alla fine…

Ma la finezza della regia si esplica soprattutto nel dar vita a figure drammaturgicamente credibili, merito anche delle competenze attoriali di tutta la compagnia: un Riccardo meno spavaldo del Duca di Mantova e di lui più simpatico, ma pur sempre ambiguo – osannato dalle folle a fine primo atto, ma usurpatore del castello avito di Samuel e uccisore del fratello di Tom: si vis pacem, para bellum … –, disinvoltamente in ampia camicia bianca; un Renato preoccupato e teso fino all'ossessione di proteggere il suo amico, guardingo, addirittura angosciato dalla possibilità del complotto, dell'attentato, elegantemente vestito di nero, con le sue cure chiuse in sé, prima quelle per l'amico, poi il rovello della vendetta d'onore; un'Amelia timorosa, colpevole in pectore d'un tradimento non consumato, di fatto innocente alla prova dei fatti e perciò biancovestita. Di questi e altri indovinati simbolismi si è debitori non soltanto alla regia di De Rosa, ma anche alle scene di Nicolas Bovey, ai costumi di Ilaria Ariemme (che, oltre alla caratterizzazione psicologica, provvede, con parrucche, gonne, bustini e giustacuori a una corretta ambientazione settecentesca; che sia a Boston o altrove, poco importa), ai movimenti coreografici di Alessio Maria Romano (talvolta un po' eccessivi nel terzo atto) e alle luci di Pasquale Mari.

Regia didascalica “con alcune licenze”, quindi. E non sarebbe potuto essere altrimenti, quando sul podio si erge un difensore della drammaturgia verdiana fedele all'originale come Riccardo Muti (sebbene per il Don Giovanni dell'anno scorso staged by Chiara Muti si sia fatta qualche concessione in più…), che non si perita di lasciare la parola «negri» in bocca a un giudice razzista e di fare in modo, non emendandola, che venga connotato come tale. La locandina dell'opera e il programma di sala con la foto del maestro, e la recita di venerdì 23 febbraio 2024 (di cui si riferisce) sold out, come la prima e prevedibilmente come le prossime, nonostante il sensibile rialzo dei prezzi, fa sospettare che l'operazione mediatica da una parte e l'interesse/curiosità del pubblico dall'altra, abbiano puntato, più che sul titolo in programma – titolo che, benché si difenda bene quanto a repliche nel ranking di Operabase, non gode della stessa notorietà presso la platea media, quanto meno per trama e pezzi famosi, di consorelle di più largo consenso quale, poniamo, Aida o Traviata –, sul richiamo della celebrità. «Perché vai al Regio? – perché c'è Muti [e non Un ballo …] – Sì, ma perché? – Perché dirige bene – E perché dirige bene? – …». Simile scambio di battute potrebbe essere oggetto di interviste fuori dal teatro. Per parte mia la risposta è: «Vado perché c'è uno dei più bei titoli di Verdi diretti da uno dei migliori direttori verdiani in circolazione». E questo è innegabile. Nel tempo, dagli anni scaligeri in poi, il furore giovanile, consono a certo Verdi del pari giovanile (ma non solo: scrostiamo questo vecchio cliché), si è attenuato, il modo di dirigere è cambiato «perché sono cambiato io», dichiara Muti, forte anche della frequentazione di repertori internazionali – restando in terra torinese, risale ad appena il mese scorso un suo concerto al Lingotto con brani di Glass, Mendelssohn e Strauss –: e questo è bene, ché dimostra un approccio dinamico, sempre in viaggio, mai “arrivato”, alla lettura di partiture come questa che adottano differenti registri espressivi, dal tragico più nero del finale, al frivolo degli interventi di Oscar, al patetico di Morrò, ma prima in grazia o di Ma se m'è forza perderti, al meditativo di Eri tu che macchiavi, fino allo sberleffo dei congiurati nel secondo atto, o alla burla di È scherzo od è follia. Ad un profondo scavo coloristico, capace di enucleare particolari dell'orchestrazione in altre direzioni non sempre rilevati (ma rilevanti), si accompagna il peso dato a certi “a solo” preziosissimi per delineare l'atmosfera: il corno inglese per Ma dall'arido stelo divulsa (Alessandro Cammilli), il violoncello per Morrò, che già prelude in nuce al raccoglimento meditativo di quello analogo per Filippo II nel Don Carlos. Ma le preziosità non si arrestano certo qui: occorre almeno menzionare la grande intelligibilità delle entrate nei fugati del tema dei congiurati, la forte drammaticità impressa a Re dell'abisso, con quegli accordi dissonanti introduttivi che suonano come bordate, la violenza perfino tangibile delle percussioni durante la scena del sorteggio, dove la prescrizione ff a tutta forza trova incarnazione fisica in una pelle di grancassa che addirittura si riesce a “vedere” percossa, il tremolo, quasi tremito, dei violoncelli quando Ulrica rivela chi sarà l'uccisore, gli interventi puntati degli ottoni in Eri tu quasi in forma di marcia funebre per un'amicizia troncata, cui fanno eco flauto e arpa (le bravissime Sara Tenaglia ed Elena Corni) a rievocare le «dolcezze perdute» (coi due strumenti più “dolci” e delicati dell'orchestra: straordinario Verdi…), e i soventi momenti corruschi, il terzetto Amelia-Riccardo-Renato del secondo atto o il quintetto del terzo, concertati in modo da far apparire l'orchestra paritetica alle voci ed in perfetto dialogo, o perfino protagonista, come nell'afflato (perdonami, Peppino…) “wagneriano” sull'«Ebben, sì, t'amo…» di Amelia – concertazione peraltro ben riuscita anche nei momenti più leggeri, come in Saper vorreste. Una partitura insomma da non bersi, per il direttore come per l'ascoltatore, tutta d'un fiato, ma al centellino, come qui è stato fatto: una direzione mobile, analitica, fremente dove serve e ponderata ov'è il caso.

Ed ora le voci. Se la prima ha riscosso critiche non del tutto lusinghiere, la seconda qui in esame depone, almeno a giudizio dello scrivente, in favore di un cast ben amalgamato e dotato, nei suoi specifici costituenti, di caratteristiche altamente personali. Si parte col Riccardo di Piero Pretti, tenore che proprio al Regio ha mosso i primi passi e che ritrovo qui con più smalto del solito, in piena forma; permangono, è vero, difetti già rilevati altrove – voce poco proiettata e di poca rotondità, anche se stavolta forzata di meno in acuto, timbro non esente da alcune asprezze –, ma risulta capace di delineare un personaggio credibile e calato nella parte, raggiungendo l'apice in Forse la soglia attinse… Ma se m'è forza perderti. Nonostante il permanere dell'indisposizione che lo aveva condizionato alla prima, annunciata a inizio spettacolo, Luca Micheletti canta coraggiosamente il ruolo di Renato e perviene a un risultato artistico di alto livello, com'è consueto, mi si lasci dire, da parte di un professionista come lui dell'emissione della parola, baciata da un timbro bronzeo, da una voce piena, solida, profonda e vibrante, e da una padronanza invidiabile del palco e dei movimenti scenici. Non solo il suo Alzati… e la già citata Eri tu, ma, a partire da Alla vita che t'arride, tutta la recita si colloca su vertici espressivi molto convincenti. Per Lidia Fridman, interprete di Amelia, vale ciò che si era già detto per la sua Giselda al Festival Verdi 2023: è un soprano che canta da mezzosoprano. Con questo intendo una grande facilità nel raggiungere i gravi, volume e cavata di voce importante, forse poco a fuoco nella proiezione degli acuti, che comunque riescono precisi; ad ogni modo un'interpretazione convinta e partecipe. Più che Ecco l'orrido campo, comunque molto ben riuscita, di grande pathos è la sua Morrò, ma prima in grazia, di orante e dogliosa pietà. Ben fatto anche per Alla Pozniak, solida e uniforme in tutta la tessitura, che incarna una Ulrica di ombroso e magnetico fascino, parente delle «sirocchie» e cugina di Azucena. Oscar, in stretta giubba grigio chiaro, che si traveste sia nel primo atto, sia nel terzo da donna, quasi in omaggio al Cherubino mozartiano, si avvale della voce tersa, limpida, schietta e squisitamente cristallina di Damiana Mizzi e apporta un tocco di luminosità in un panorama vocale per il resto piuttosto scuro. Si affiancano i validissimi Daniel Giulianini e Luca Dall'Amico (Samuel e Tom), Sergio Vitale (Silvano) e Riccardo Rados (il Giudice e il Servo di Amelia).

Inutile ribadire la consueta qualità dell'Orchestra del Regio, giustamente lodata e lodabile, e che anche stavolta non si è smentita nella sua bravura. Non inutile invece sottolineare la pregnanza, sia canora, sia verbale, del Coro, ben preparato da Ulisse Trabacchin, che soprattutto nel sillabato dei congiurati esplicita le sue rimarchevoli qualità.

Applausi calorosissimi a tutto il cast, vera e propria ovazione per Muti da parte di un pubblico variegato anche come età, per la presenza di scolaresche.

Christian Speranza

26/2/2024

Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.