Visioni di Giovanna d'Arco
L'approccio verdiano alla complessa personalità di Giovanna d'Arco è certo riconducibile alle consuetudini melodrammatiche dell'epoca. Il testo di Schiller, base per il libretto confezionato da Temistocle Solera, viene sfrondato delle sue più aspre complessità per deviare verso percorsi più adusi al pubblico coevo. Ciò non toglie che Verdi abbia saputo cogliere alcuni spunti che vedranno successive e più profonde incarnazioni. Per queste ragioni, che andremo ora ad analizzare, bene ha fatto il Teatro dell'Opera di Roma a riproporre una partitura ascoltata una sola volta al Costanzi, nel lontano 1972. La paranoica possessività di Giacomo, padre di Giovanna, addita quel conflitto generazionale che tanta parte ha nella produzione del bussetano, oltre a prefigurare aspetti del successivo Rigoletto. Ecco dunque una figura eminentemente tragica, implacabile artefice della rovina della propria figlia, accusata di stregoneria, quasi folle nelle sue esternazioni emotive, alle quali Roberto Frontali dona una incarnazione di assoluto rilievo. Nel finale appare sconfitto, desideroso di eclissare il proprio dolore nella morte. E naturalmente c'è la protagonista, una donna lacerata nel dissidio inconciliabile fra anima e corpo. Senza scomodare pulsioni freudiane, Verdi crea un personaggio moderno nella sua brusca dicotomia. Non a caso all'interprete vocale, una Nino Machaidze di grande temperamento e comunicativa, scevra di qualsiasi eccesso, il regista Davide Livermore affianca un doppio, idea non nuova ma efficace. Quando nel secondo atto Carlo VII, un Francesco Meli dall'accento limpido e dal fraseggio elegante, si rivolge alla sua amata non guarda Giovanna ma la danzatrice che ne rappresenta i tratti sfuggenti e sovrannaturali, come a marcare una distanza incolmabile. In quest'ottica la tematica della patria oppressa di stampo risorgimentale rimane in secondo piano. Livermore appare più interessato ai conflitti interiori, agli aspetti progressisti della visione verdiana. La scena unica è sormontata da un'enorme sfera nella quale le proiezioni rimandano alle ossessioni dei protagonisti. Le fiamme, simbolo di un rogo che nell'opera non c'è, in quanto nella presente declinazione della vicenda Giovanna muore in battaglia, il bosco, la corona, il sangue additano l'intimo dissidio, l'eterno conflitto fra bene e male. Un dissidio che non va tanto cercato nella contrapposizione fra i cori diabolici e quelli angelici, invero musicalmente non memorabile, quanto nei momenti psicologicamente più riusciti. Le figure alate costantemente presenti sulla scena non portano i segni evidenti del loro appartenere al mondo infero o alle sfere celesti, ma appaiono come visioni neutre del sovrannaturale che si manifesta per vie oltremodo misteriose.
Se Giovanna d'Arco è opera dagli esiti indubbiamente alterni, rappresenta comunque una tappa non trascurabile nell'ampio catalogo verdiano. Degli interpreti principali abbiamo detto. Manca da notare il più che solido Dmitry Beloselskiy nel ruolo piuttosto breve di Talbot, un esempio di come anche parti minori possano acquistare rilievo nelle mani di grandi artisti. Riguardo la direzione, Daniele Gatti trae il massimo dalla partitura, anche grazie all'ottima prova dell'orchestra. La sua interpretazione sfugge gli stereotipi svelando accuratezze che sfuggono a una lettura superficiale. “Vorrei che tutti sentissero la Voce che io sento”; in questa frase di Giovanna d'Arco proiettata a conclusione dell'opera c'è tutta la sostanza del dramma, la lacerata distanza fra la terra e il cielo, la profonda ed umana aspirazione verso la trascendenza. Riccardo Cenci
21/10/2021
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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