RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'odio dell'acqua, l'amore del fuoco

Otello, in fondo, può leggersi come uno scontro tra amore e odio: ma il fatto che si concluda come si conclude non significa, necessariamente, che a trionfare sia quest'ultimo. Giacché l'odio in sé, nell'Otello, forse neppure esiste ed è scatenato da altri sentimenti negativi – questi sì ben presenti – come gelosia, invidia, avidità (nell'accezione più ampia del termine); mentre quella follia omicida che dalla gelosia deriva è amore malato, incontrollabile regressione ferina, tutti gli abissi psichici di questo mondo, ma non odio vero. E anche Jago, nella sua metafisica del male, mette in atto una macchina gratuita e superomistica che va ben oltre la banalità dell'odio.

Quanto all'amore, all'apparenza trova cittadinanza solo nell'avvolgente duetto del primo atto: un sentimento che, però, qui sembra nascere dalla pietas («E tu m'amavi per le mie sventure ed io t'amavo per la tua pietà»), con singolari analogie, a ben vedere, a quello che legava Rigoletto alla defunta moglie («Solo, difforme, povero per compassion m'amò»). In queste due storie d'amore che Boito e Piave hanno il talento di sintetizzare, rispettivamente, in sedici e sette parole non c'è spazio per quel tanto di vitalistico e sanamente egoistico sotteso alla nascita d'ogni passione amorosa: laddove il lunare andamento melodico di Già nella notte densa descrive invece un'attrazione dolcissima, ma frenata dal rispetto e da un latente senso d'inferiorità. Il duetto si apre alla sensualità implorante della passione vera solo quando, per la prima volta, risuona in orchestra il leitmotiv del bacio; e che su quest'ultimo – a omicidio consumato – si chiuda pure l'opera, testimonia che Verdi cede l'ultima parola all'amore. Parola che, appunto, è data dalla musica. Spetterà al direttore d'orchestra prendere posizione: raccontare un amore immenso, dove l'omicidio-suicidio è conclusione inevitabile; oppure cedere il testimone all'odio, imbrigliare tutto in una cappa senza scampo, vedere già nell'uragano del primo atto una natura matrigna che prelude alla sconfitta umana.

Ciò che dispiace della concertazione di Daniel Oren, in quest'Otello romano, è proprio l'aver abiurato a una chiave di lettura, il rifugiarsi in un'ovvietà rassicurante: i momenti più fortemente drammatici tradotti con sonorità voluminosissime, quelli di più soave lirismo resi con tempi estenuantemente allargati. Come a dire (volendo riassumere decenni di storia interpretativa dell'Otello): la mente rivolta a Toscanini, il cuore a Karajan. L'orchestra del Teatro dell'Opera, comunque, risponde bene, e il coro – a cominciare da quello di voci bianche – più ancora. Né, a una restituzione ermeneutica della drammaturgia musicale, giova la regia di Allex Aguilera: tradizionale, se per tradizione s'intende fedeltà all'epoca prevista dal libretto, ma imprecisa sotto il profilo illustrativo (Otello non bacia Desdemona nell'entrare in camera da letto per ucciderla, vanificando la poesia struggente di «Pria d'ucciderti… sposa… ti baciai») e con una scena unica di Bruno de Lavenére che rimanda a Venezia piuttosto che a Cipro.

Poco incisiva nel lavoro gestuale sui cantanti (lascia perplessi che la circonvenzione di Otello a opera di Jago avvenga con una coppa di rosso in mano: un omaggio a quel «vin di Cipro» che così diventa l'unico addentellato cipriota della regia?), la messinscena di Aguilera ha però, a tratti, una sua cifra. È in quei momenti – anche ricorrendo a immagini digitali, come nel caso dell'uragano – dove riesce a creare una dialettica tra acqua e fuoco, che in qualche modo replica la contrapposizione amore-odio e lo scompaginamento tra i rispettivi confini. È il caso del «fuoco di gioia» baluginante, ma destinato, come tanti sentimenti amorosi, a rimpicciolirsi via via; e dell'acqua intesa quale veicolo di morte, dato che Desdemona non viene pugnalata, ma affogata in un lavacro che rinvia al fonte battesimale e, dunque, a quella inconciliabilità tra religioni che deriva da tanti matrimoni interrazziali. Anche se qui, in omaggio a una political correctness forse voluta più dal teatro che dal regista, Otello non ha la pelle nera.

In ogni caso, per il pubblico romano questo era l'Otello “di” Gregory Kunde. Che un tenore settantenne non possa avere serate tutte smaglianti resta un dato di fatto, e Kunde alla première non è apparso nella sua forma migliore. Resta l'immensità di un artista che, con la carriera che ha, continua a mettersi in gioco; l'eclettismo psicologico-stilistico tale da permettergli ieri di essere un paradigmatico Otello rossiniano e oggi uno dei più interessanti Otelli verdiani in circolazione; l'immarcescibile solidità tecnica che, pure in una partitura massacrante come questa, consente di aggirare i momenti di stanchezza e realizzare una performance in crescendo (esordisce con un Esultate! molto cauto, Ora e per sempre addio presenta occasionali slabbramenti di emissione, ma è difficile ascoltare un Dio! mi potevi scagliar tutti i mali dove il declamato ansimante del tenore è così in simbiosi con il canto soffocato di violoncelli e contrabbassi). Ne scaturisce un protagonista sofferente e ripiegato, impoverito nella dimensione altisonante ma arricchito di sfumature. E che quest'Otello distrutto, votato alla sconfitta nonostante le vittorie militari, abbia le fattezze di un uomo prestante, sì, ma comunque di settant'anni, fa quadrare ulteriormente i conti e crea una bella dialettica con lo Jago incarnato da Igor Golovatenko, “vincente” per bellezza e giovinezza.

Per il resto Golovatenko è artista meno scavato di Kunde, eppure altrettanto antitradizionale negli esiti. Si “limita” infatti a cantare il suo personaggio, con tutte le note e i segni di espressione previsti da Verdi, senza quelle sovrastrutture interpretative che Jago sembrerebbe esigere. Si tratti di semplicismo oppure di sana linearità vocalistica, i risultati in ogni caso gli danno ragione: il suo canto fluisce scorrevole, oltre che perfetto nella dizione. Una totalizzante fedeltà alla lettera della partitura, rinunciando a scrutarne tra le righe anche lo spirito, è invece il limite di Roberta Mantegna: morbida e corposa come la scrittura da soprano lirico esige, ma che racchiude Desdemona nel consueto bozzolo di una stolida inconsapevolezza. Forse un concertatore meno ovvio l'avrebbe spronata a restituire le ansie sotterranee del personaggio e, d'altronde, la routine di Oren non rende giustizia nemmeno ai comprimari: il Cassio di Piotr Buszewski spicca solo come bella voce; il Roderigo di Francesco Pittari è più pallido caratterista che occulto antagonista; Irene Savignano, come Emilia, rivela la sua personalità vocale quando denuncia l'uccisione di Desdemona, ma nel quartetto era stata lasciata in secondo piano.

Paolo Patrizi

7/6/2024

La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.