Milano
Ritornano I Masnadieri
Dopo un prolungatissimo silenzio ritornava alla Scala il secondo lavoro di Verdi su un testo di Schiller – con un libretto infausto dell'amico Andrea Maffei, traduttore molto quotato all'epoca e perciò non tempestato da Verdi come usava sempre con i suoi librettisti meno 'coturnati'. Preparata con cura l'edizione – non tanto sul versante cantanti quanto nell'aspetto teatrale-musicale – alla prima è stata ricevuta, come al solito, con manifestazioni di approvazione e di rifiuto – queste ultime non sempre condivisibili. L'allestimento di David McVicar non è di certo il più felice dei suoi, con banditi che lo sono alla fine ma non all'inizio, e il testo è chiaro: Carlo, il protagonista, non è come gli altri, e questo Schiller che disturba tutto il tempo con la sua presenza – non solo da spettatore ma anche da attore, e che non si sa a quanti risulti chiaro che si tratti di lui e della sua disgraziata vita di studente in una scuola militare severissima – non riusciva a dissimulare i problemi del libretto. Da qui a dire che si tratta di un brutto spettacolo c'è un mondo e alcune scene, soprattutto d'insieme, sono azzeccate. Bei costumi, non dell'epoca cui rinvia il testo, e scene interessanti, non tutte ugualmente riuscite.
La direzione di Michele Mariotti è stata una pura meraviglia senza eccessi né frastuoni – e si vede che questo a qualcuno non piace, ma il primo Verdi non è una cabaletta vigorosa perpetua – con un suono bellissimo e vellutato dell'orchestra – una menzione particolare merita il violoncello di Massimo Polidori nel preludio. E poi si deve al maestro se alcuni problemi sul palcoscenico non sono diventati ancora più gravi. Lo stesso coro, non si sa se per i nervi o per le prove, non era sempre affiatatissimo negli attacchi anche se il suono era bellissimo come al solito – bravo Bruno Casoni.
Ma questa è un'opera soprattutto di cantanti. È vero che l'unico ruolo femminile è stato pensato per l'usignolo tedesco Jenny Lind, ma visto il suo repertorio la sua voce doveva avere qualche consistenza. Lisette Oropesa ha cantato bene, molto bene nel settore acuto, negli ornamenti e nelle agilità, ma oltre a mancare di bellezza e personalità la voce non si può dire che abbia un vero registro grave e già quello centrale è un po'scarso. Il migliore in campo è stato Michele Pertusi, Massimiliano padre infelice, che in un ruolo scritto per Lablache, anche se non il più importante dei quattro, ha dato ancora una volta prova di capacità tecnica e stilistica: il suo duetto con Carlo era il momento più bello della serata perchè finalmente lí Fabio Sartori dimostrava di poter essere un protagonista quasi ideale. Dico ‘quasi' perchè per il resto il singhiozzo dà fastidio, il fraseggio è convenzionale a più non posso, l'artista è banale – al meglio – e le tante tracce di belcanto, mezzevoci e suoni filati in primis, venivano ostinatamente ignorate.
Massimo Cavalletti è stato sempre molto amato dai reggenti del teatro di Zurigo, ancora per un anno incaricati dei destini scaligeri. Ma Zurigo non è Milano, nè i teatri sono comparabili – a prescindere d'altro per le dimensioni. Francesco è il ruolo più interessante, uno di quei cattivi terribili ma con qualcosa che ha sempre attirato Verdi – ci riusciva sempre quando si trattava di spiegare o cercar di capire la malvagità degli esseri umani. Il baritono non ha più il volume di un tempo, probabilmente per un'emissione sempre più difettosa che resta sempre indietro e in gola e che poi fatica negli acuti – o stonati o urlati, o entrambe le cose – e se ha fatto meglio la scena finale non è riuscito a rendere quel piccolo capolavoro che è. Discreti o corretti Alessandro Spina (Moser, il pastore che condanna alla fine Francesco), Francesco Pittari (Arminio, il traditore pentito) e Matteo Desole (Rolla, il principale tra i masnadieri con vistosa ferita insanguinata).
Jorge Binaghi
1/7/2019
La foto del servizio è di Marco Brescia & Rudy Amisano.
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