RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Cavalli di… Battaglia

Non sempre le ciambelle riescono col buco. E nemmeno le regie. O per lo meno, il buco c'è, ma riferito a un vuoto di idee che sarebbe stato facilissimo riempire data la messe di suggestioni che un'opera come La battaglia di Legnano (Roma, Teatro Argentina, 27/01/1849) offre alla fantasia – non per forza, anche se preferibilmente, attinenti al libretto. Le mura della Milano del 1176, dove Arrigo e Rolando si ritrovano dopo che il primo è stato creduto morto in guerra; la sala del Municipio di Como, dove a sorpresa irrompe il Barbarossa promettendo strage; la cripta di Sant'Ambrogio, dove si riuniscono i Cavalieri della Morte e che ha un precedente illustre, per restare in Verdi, nell'analoga scena dell'Ernani nelle tombe di Aquisgrana; la torre dove Arrigo incontra Lida, sua promessa prima della partenza per la guerra e ora moglie di Rolando, e dove viene rinchiuso da Rolando stesso per impedirgli di partire, che anticipa già l'ambientazione del Trovatore (e d'altro canto la penna è la stessa: quella di Salvatore Cammarano); una piazza di Milano col «vestibolo di un tempio», dove Arrigo viene portato morente dopo lo scontro, sulla falsariga di quanto avveniva con Pagano al termine dei Lombardi: ambientazioni e trama ricche di spunti, che Valentina Carrasco, chiamata a inscenare l'opera al XXIV Festival Verdi di Parma, non raccoglie, preferendo spostare l'attenzione su un unico particolare: il coinvolgimento dei cavalli nel corso delle battaglie.

Sovente, infatti, dichiara Carrasco nel programma di sala, si pensa solo ai cavalieri delle tante battaglie equestri, ma non ai loro fidi animali, ai cavalli, ai loro cadaveri che al termine degli scontri disseminano i campi, assieme a quelli umani, al loro sacrificio di “scudi di carne”, prima loro, poi i soldati. Il nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma, in coproduzione col Comunale di Bologna, inizia con inquadrature ravvicinate dei placidi ungulati, dei loro musi, del carducciano «lento / Giro de' pazïenti occhi», per poi spostarsi su analoghe immagini di qualche quadro storico, forse le sinopie mantovane del Pisanello. Le scene, di Margherita Palli, costringono a concentrare l'attenzione sulla tematica, dal momento che, a parte modelli a grandezza naturale di cavalli spostati su carrellini con ruote e qualche balla di fieno, non presentano molto altro. Barbarossa viene sospinto dal fondo del palco su uno di questi modelli (simile sorte toccava a Enrico VIII nell'Anna Bolena di Carmelo Rifici, vista a Piacenza: dove di cavalli se ne intendono…), mentre un contrasto di fumi e lampi di luce, con tutto scuro intorno, serve a Marco Filibeck per adombrare il personaggio di negatività (per il resto le sue luci si limitano a un'illuminazione neutra e diffusa senza troppa fantasia). Negatività sottolineata vieppiù dal Barbarossa che, smontato dall'animale, si avvicina a un «cavallo stramazzato», che fa molto Montale, e ne solleva la «testa mozza» (che fa molto Padrino di Coppola). La torre si trasforma qui in una scuderia, con più fieno di prima e l'immancabile cavallo, e Arrigo viene rinchiuso in una stalla da Rolando, che per minacciare la «coppia iniqua» creduta fedifraga non esita a imbracciare un fucile. I costumi di Silvia Aymonino, infine, confondono le idee, attingendo da varie epoche storiche, vagamente ottocenteschi ma neanche poi tanto, dal cappotto blu di Arrigo al trench di Rolando, a casacche di feltro per il coro, dallo svolazzante abito vinaccia di Lida agli stivaloni da cavallerizza di Imelda.

Stupisce una regia così “equina” da parte di Carrasco, che qualche mese fa aveva messo in scena una stupenda Fanciulla del West “cinematografica” al Regio di Torino; tanto più che l'intenzione animalista, se sottesa, non è emersa, e nemmeno la carica di patriottismo cui solitamente si ricorre, anche un po' per cliché, per questo titolo, scritto da Verdi sull'onda delle Cinque Giornate di Milano e qui appena accennato in qualche bandiera color “verde Lega Nord”.

Il versante musicale compensa ampiamente quello registico, almeno a giudicare dalla seconda recita in programma, quella di venerdì 4 ottobre 2024; a partire dalla direzione corrusca e briosa di Diego Ceretta, ben centrata sia nei momenti più militareschi, sia in quelli di più acceso melodismo. In questo è molto ben coadiuvato dall'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e dal suo Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, sugli scudi per un'ottima e coesa prestazione.

Il cast si è mostrato vincente e ben assortito. Stentoreo e potente l'Arrigo di Antonio Poli, bella voce calda, luminosa e grande, con punte di eroismo molto convincenti, sottolineate da acuti precisi, puliti, solidi, così come da una recitazione ben calata nella parte, movimenti naturali e disinvoltura sulla scena. Non è da meno la Lida di Marina Rebeka, dalla voce affilata e brillante, il cui volume, relativamente contenuto, depone a favore di agilità tecnicamente impeccabili, forse un po' fredde ma ben sgranate e perlate, veramente ammirevoli, come ammirevole è del pari la prestazione scenica, credibile e naturale. Un Rolando di lusso è qui Vladimir Stoyanov, già ammirato Nabucco nella ripresa fidentina dell'anno scorso. Là dove la ridotta camera acustica del Magnani di Fidenza esaltava la sua bella voce timbrata, baritonale tendenzialmente chiara e il suo volume importante, le maggiori dimensioni del Regio di Parma, e il grande spazio vuoto sul palcoscenico, la disperdono, facendola sembrare più “piccola” di quella che è realmente. Ma non è una nota così negativa, perché Stoyanov sfrutta la sua naturale eleganza di canto per restituire un Rolando fondamentalmente nobile, dove anche l'ira per il supposto tradimento di Lida e Arrigo si ammanta in qualche modo di decoro, facendone un interprete attorialmente valido e psicologicamente coerente, soprattutto nelle battute finali dell'opera.

Colpiscono anche la solidità del Federico Barbarossa di Riccardo Fassi, timbrato e dagli efficaci chiaroscuri espressivi, e la morbidezza e la cremosità vocale dell'Imelda di Arlene Miatto Albeldas, allieva (o ex allieva) dell'Accademia Verdiana, dalle ampie. risonanti e ben legate arcate melodiche. Il Primo Console di Emil Abdullaiev e il Secondo Console di Bo Yang, anch'essi allievi (o ex) dell'Accademia Verdiana, completano validamente la compagnia, assieme ad Alessio Verna quale Marcovaldo e a Francesco Pittari, che sostituisce il previsto Anzor Pilia nel doppio ruolo dello Scudiero di Arrigo e dell'Araldo. A lui un ringraziamento per essere intervenuto al Festival con prontezza e versatilità, interpretando anche Uldino nell'Attila di Fidenza.

La recita registra un'accoglienza calorosa da parte di un Regio gremito per un titolo di non così comune allestimento.

Christian Speranza

6/10/2024

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.