RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un ballo fra teschi e palloncini

Il vino buono nella botte piccola. À bon vin, point d'enseigne. Rien de mieux que les petits emballages. Good things come in small packages. Se ne potrebbero trovare altri, di modi di dire, ma il significato resta quello: al Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, il “teatrino” da trecento posti che Verdi probabilmente non avrebbe nemmeno voluto, data la sua antipatia per tutte le forme di vanagloria, è andato in scena Un ballo in maschera «splendidissimo» per cast e regia, da fare invidia a piazze con mezzi scenici imponenti e metri quadri soverchianti.

Se il Regio di Parma continua a rimanere la sede d'elezione del Festival Verdi, le due sedi succursali, il Magnani di Fidenza e il Verdi di Busseto, allestiscono spettacoli di pretese sceniche più modeste – nel caso del Magnani in forma di concerto – ma di sicura presa sul pubblico. Che poi in questo caso le pretese sceniche siano più “modeste” solo perché allestite su un palcoscenico piccolo, è tutto da dimostrare; anzi, sapendo che quanto si è visto al Verdi non è stato che “l'anteprima” di uno spettacolo che girerà tra il Comunale di Bologna e i Teatri della Fondazione Rete Lirica delle Marche – il Teatro dell'Aquila di Fermo, il Ventidio Basso di Ascoli Piceno e il Teatro della Fortuna di Fano –, è da augurarsi che in sedi più ampie possa trovare spunti per essere allestito ancor meglio.

D'altro canto, se su queste assi Zeffirelli è riuscito a mettere in scena Aida, titolo grandioso per antonomasia, significa che niente è impossibile, se affidato alle mani giuste. Le mani sono in questo caso quelle di Daniele Menghini, regista che, assieme al suo entourage (Davide Signorini: scene; Gianni Bertoli: luci; Nika Campisi: costumi), dà vita a uno spettacolo che definire surreale «non basta a dicer “poco”». A marzo di quest'anno aveva già dato prova di notevole inventiva allestendo proprio a Parma un originalissimo Elisir d'amore; a maggio lo abbiamo visto alle prese con un Tristan und Isolde palermitano fin troppo lambiccato e per certi versi di dubbio gusto. Con questo Ballo centra invece l'obiettivo di uno spettacolo sì originale ma coerente, ben costruito e con nulla lasciato al caso.

Mentre con certe opere è quasi un “delitto registico” cambiarle di ambientazione, con altre si può fare, beninteso se alla base c'è un'idea che funzioni. Il Ballo verdiano è una di queste. Il soggetto trova la sua origine nella storia vera di Gustavo III, re di Svezia, che il 16 marzo 1792 venne ferito durante un ballo di corte e morì pochi giorni dopo. Il primo a trarne un libretto fu Eugène Scribe, portato in scena nel 1833 come grand opéra a Parigi su musiche di Daniel Auber. Fu poi la volta di Vincenzo Gabussi, che lo musicò nel 1840-41 per la Fenice su libretto di Gaetano Rossi; due anni dopo lo riprese Saverio Mercadante, il cui Reggente debuttò al Regio di Torino nel 1843 su libretto di Cammarano. Anche Bellini accarezzò il progetto di musicarlo, nel 1834, ma il peggiorare della sua salute e situazioni contingenti lo indussero a optare l'anno dopo per I puritani. Quando Verdi si interessò ad esso era il 1856. L'avrebbe musicato per il San Carlo di Napoli. Iniziò a lavorarci col librettista Antonio Somma nell'ottobre del 1857, ma l'attentato a Napoleone III, che il 14 gennaio 1858 fu messo fortunosamente in salvo dalle bombe di Felice Orsini mentre si stava recando all'Opéra per il Guillaume Tell di Rossini (a volte l'opera fa male…), indusse la censura borbonica a rivedere drasticamente il libretto. Niente regicidio: avrebbe potuto fomentare altre e più gravi rivolte. Niente sorteggio. Spostare l'azione dal Settecento svedese al Seicento americano (così che il re di Svezia potesse diventare il governatore di Boston). E molti altri cambiamenti. Degli 884 versi di Un ballo in maschera, diventato per l'occasione Adelia degli Adimari, ne vennero cambiati 297. Troppo per Verdi. Spazientito, ritirò l'opera e la diede all'Apollo di Roma, con modifiche molto più marginali da parte della censura pontificia, dove andò in scena il 17 febbraio 1859.

È insita quindi nella genesi del Ballo una certa tendenza alla trasposizione, benché il Festival tenga a precisare che «Il libretto utilizzato è quello ad ambientazione svedese, così come concepito da Verdi per il debutto a Roma». Per questo l'operazione di Menghini pare azzeccata, trasponendo l'opera in un contesto quasi atemporale, moderno per il solo fatto che Riccardo viene freddato da un colpo di revolver, per il resto trattato con la visionarietà dark e goticheggiante di un Tim Burton con commistioni grottesche del Rocky Horror Picture Show e temerarie ma non avventate suggestioni del carnevale veneziano. La riuscita dello spettacolo è però da dividere a parimerito con un cast giovane, ben assortito, preparatissimo e soprattutto a suo agio in questo allestimento. È infatti dalla perfetta intesa di cast, regia e direzione che la terza recita in programma, sabato 5 ottobre 2024, ha ottenuto il successo che ha meritato. Ed è per questo che si cercherà di darne conto di pari passo, seguendo lo svolgersi della trama.

Si parta con l'evidenziare la buona conduzione di Fabio Biondi, forse un po' routinaria e che qua e là indugia in allentamenti di tensione, ma che nel complesso risulta all'altezza del Verdi maturo. L'Orchestra Giovanile Italiana ha dalla sua un suono sorprendentemente teso, smagliante e preciso, che avvantaggiano un ascolto trasparente delle linee melodiche, soprattutto nei non pochi passaggi fugati del “tema della congiura” (filologicamente è un peccato che si sia ricorso alla tuba anziché al cimbasso, data la nota avversione di Verdi per «quel diavolo di bombardone» che secondo lui non si amalgamava bene con gli altri ottoni: ma «noi, clementi in vero, perdonammo»…). Plauso poi a Leonardo Voltan (violoncello) ed Emilia Galli (corno inglese) per i rispettivi assoli.

Mentre scorrono le note del Preludio, scorre anche, a sipario chiuso, da sinistra a destra, un palloncino grigio a mezz'aria che all'aprirsi della scena viene scoppiato da Tom. Scena costruita invero molto semplicemente, con una scalinata semicircolare sulla sinistra, sormontata da un trono con a lato due sculture di leoni, sormontato a sua volta da due statue di putti che sorreggono una corona. Tutto nero e disseminato di palloncini neri e oro. Gradini, trono e angeli neri, opprimenti come le luci, anzi come le ombre che esse delineano. Sulla destra è lasciato più spazio ai movimenti e al coro. Coro che appare, nelle sembianze dei cortigiani di Riccardo, con fogge bizzarre, vagamente rinascimentali, a ricordare da vicino la corte del Duca di Mantova del Rigoletto. Colgo anzi quasi una citazione in un corista con giubba, gorgiera e tricorno. Qua un cappello piumato (nero, ça va sans dire), là una blusa, là un mantello, ed ecco calzamaglie e calzoni alla zuava. Una dama addormentata di traverso sul trono si risveglia dal festino e si scopre essere Riccardo, dall'ambigua gonna nera e dalla giubba nera e oro. Oscar non è qui il paggio di corte, ma una donna vera e propria, che al ballo si maschererà per converso da uomo con due baffetti dipinti (neri: dobbiamo ripeterlo?). Soltanto Samuel e Tom sono immuni da queste bizzarrie, vestiti che più formali non si può in smoking. Soltanto loro, inoltre, sono immuni dal trucco, assieme a Renato – più elegante ma meno formale, in completo e cravatta neri con pochette bianca (della cravatta si libera quasi subito, in un progressivo svestirsi lungo l'opera) – e ad Amelia, dama in nero che fa molto Morticia Addams: immuni da un maquillage che principalmente infarina agli altri il volto. Siamo nel regno del fantastico, ripeto, del grottesco e del surreale, alla corte perversa e ridanciana di un potente che ha sì a cuore il suo popolo, ma in fondo se la spassa a scapito di quei soprusi cui accennano Samuel e Tom. Una corte dove si mangiano fette di torta alla panna, in un tourbillon onirico come la Mascherata del principe Prospero di Poe, e le pareti, foderate di legno, rendono l'ambiente caldo e quasi soffocante, claustrofobico, sensazione acuita dalle ridotte dimensioni del palcoscenico di cui sopra, che in questo caso è più un vantaggio che uno svantaggio.

Cominciamo a fare la conoscenza dei personaggi. Riccardo si presenta con un La rivedrà nell'estasi da manuale. Il ventinovenne Davide Tuscano convince appena apre bocca, esibendo una voce aperta, spianata e sonora, una voce ampia, sicura, robusta e omogenea in tutti i registri. Lo stampo è quello del tenore lirico, da Donizetti maturo, da questa tipologia di Verdi, non estraneo forse a un Rodolfo o a un Cavaradossi. In certi momenti ci cogli qualcosa dell'eleganza fraseggiante di Meli. Il suo più «fido amico» è il Renato di Lodovico Filippo Ravizza. Lo avevo incensato, e non a torto, in altra sede. Ma giù il cappello, signori: qui si è superato. Un Alla vita che t'arride così ben fatta sarà difficile da riascoltare. Una voce estremamente timbrata, la sua, scura, una tornitura di parola eccellente, una grande calata nel personaggio, qui il custode dell'ordine e della sicurezza – anche morale – di Riccardo (anzi, vestito così, gli mancherebbe solo un auricolare e una ricetrasmittente per impersonare il suo bodyguard): Ravizza si conferma un interprete di lusso, che sia il Belcore buffo (dell'Elisir parmense succitato, ad esempio) o il drammatico Renato del Ballo.

Di lusso anche l'Oscar di Licia Piermatteo, che ad un lucente «Difenderla vogli'io» fa seguire un'ancor più lucente Volta la terrea, mirifica quanto a colorature brillanti e sgranate, simpaticissima nell'impersonare il personaggio aereo e sbarazzino che porta in scena. Le cartucce migliori, però, se le tiene per il terzo atto. Molto convincente anche sia lo smalto, sia l'interpretazione di un Giudice piccato e risentito da parte di Francesco Congiu, in completo grigio, baffetti e occhialini da vero impiegatuccio, pomposamente imparruccato da un Oscar scherzoso.

Le luci si fanno più cupe. La seduta del trono fumiga ora di vapori rossastri, da cui si leva il «re dell'abisso», un figurante mascherato e beccuto, poi due, che strisciano fino a Ulrica. Danbi Lee dispone di uno strumento bronzeo e risonante, denso e pastoso, che non teme di avventurarsi negli acuti e che domina il grave slargando bene i suoni. Convincente anche come attrice nell'impersonare, sotto un trucco pesantissimo e molto efficace, una megera indurita e resa indifferente dall'età. Abito chiaro alla Elisabetta I e sigaretta fra le dita, attira e ripugna al medesimo istante. Riccardo/Davide, in platea, la deride, scherzando col pubblico seduto. E quando Silvano, che qui ha figura e voce di Giuseppe Todisco (e che bella voce: sicura, timbrata ed espressiva), afferma: «Son servo del Conte, son suo marinaro», Riccardo assume l'espressione come a dire: ma chi lo conosce, questo? Altro punto messo a segno per la sua recitazione, così come quando lancia dalla platea l'involto con l'oro, scarabocchiato in tutta fretta con la promozione, o quando, dopo la «siffatta profezia», inizia a scherzare muovendo la mandibola di un teschio (teschio che alcune comparse dileggiano con la lingua). Tra l'altro, notiamo l'aderenza al libretto nel mascherare Riccardo da marinaio con una benda sull'occhio, alla corsara. Per non farsi riconoscere, il Servo di Amelia, sempre Congiu, entra con occhiali da sole e cappuccio della felpa sulla testa. Nulla al caso.

Dal primo al secondo atto vi è una progressiva discesa negli abissi. I putti neri in alto ora hanno una maschera da teschio. Accanto al trono, che ora è il patibolo, coi gradini cosparsi di teschi, vi è il rosso cespuglio d'erba da cogliere sull'«orrido campo» (di nuovo, nulla al caso). E dalla sua seduta, ecco davvero lo spettro che vede Amelia, che «di sotterra si leva»: emerge la testa di un figurante che digrigna i denti, con un trucco alla Halloween. Amelia è qui Caterina Marchesini, che offre un'interpretazione intensa e accorata grazie a una recitazione ricca di pathos in Ecco l'orrido campo e una voce morbida, lirica e sfumata, usata con intelligenza sia nel duetto con Riccardo, dove insieme danno una lezione di canto d'assieme, sia nel terzetto successivo. Da notare anche qui due particolari di regia. Quando nel duetto la seduzione è quasi completa, Riccardo spalma di trucco bianco il volto di Amelia e le mette un giubbetto nero e oro: la fa insomma somigliante a sé, la attira nel suo mondo. Secondo: quando si presenta a Ulrica, lo fa con un fagottino bianco in mano: suo figlio. Particolare che rende ragione delle parole di Riccardo nell'atto terzo: «tuo figlio / a te concedo riveder», senza le quali la maternità di Amelia sfuggirebbe. Permesso di rivedere il figlio accordato dopo un'intensa, dolente e sentita Morrò, ma prima in grazia: chapeau!

Allo svelamento di Amelia (letterale, perché di leva un velo), appaiono scure figure inferraiuolate, con maschera e tricorno, in un'aspra luce verde: pura Venezia da brividi. La colluttazione con Renato e il «baccano sul caso strano» è reso verosimile, arguto e salace grazie all'ottima prestazione, vocale e attoriale, del Samuel e del Tom rispettivamente di Agostino Subacchi e Lorenzo Barbieri, altre due voci particolarmente valide da apprezzare si spera in futuro in ruoli più estesi (un Ve' se di notte leggero e schernente al punto giusto). Ben condotta anche la scena del sorteggio, i cui biglietti vengono estratti da un roseo cappellino conico da festa. E questo ci porta all'atto terzo. Oltre che il volto ora i putti hanno anche le coste da scheletro, bianche sui corpi neri, e il trono è completamente ricoperto di teschi, quasi cripta dei Cappuccini di Palermo. La discesa nell'abisso prosegue. Renato/Lodovico, senza più giacca, solo in camicia, canta Eri tu giustamente davanti al ritratto di Renato: un ritratto strappato nella sua porzione inferiore; ha i tratti sfocati; del colore nero è colato sulla parte sinistra e l'occhio destro è stato accecato da dell'altro nero: Renato si sarà sfogato sul ritratto? Chissà. Già in «Ho giurato che alle porte» a fine secondo atto si coglievano sfumature timbriche alla Salsi. Ma qui è certo che un odio, un'acredine e una prestanza vocale come quella che Ravizza esibisce in Eri tu, hanno del miracoloso.

Così come miracolose sono sia il Ma se m'è forza perderti di Riccardo/Davide, molto espressivo, sia il Saper vorreste di Oscar/Licia, che dà fondo a tutte le sue risorse tecniche ed espressive, con originali variazioni nella ripetizione strofica (tocca anche il Re acuto nella puntatura finale) attraverso la sua voce limpida, squillante e cristallina. Meritatissimi gli applausi che seguono.

La scena finale è un tripudio. I cortigiani rispolverano la coreografia della Macarena. Riccardo truccato da donna, con tanto di rossetto, e Oscar da uomo coi già ricordati baffetti, aggiungono ambiguità, la festa procede sfrenata per poi rallentare nel duetto con Amelia, altra fermata di toccante lirismo in cui il tempo pare sospendersi. Rapidamente le cose precipitano con lo sparo alla schiena da parte di Renato e la morte di Riccardo, sopraffina prova di teatro in cui il personaggio si mette a nudo rivelando la sua umanità e fragilità al di sotto della maschera, e che smuove in chi scrive punte di autentica commozione.

Resta da ricordare la prova maiuscola del Coro del Teatro Regio di Parma, al solito ottimamente istruito da Martino Faggiani, o meglio di una sua delegazione: il resto infatti, viene impegnato nel primo concerto della serie Ramificazioni, novità del XXIV Festival Verdi, poche ore dopo la recita bussetana. Recita che colleziona applausi entusiasti, e non senza perché.

Christian Speranza

8/10/2024

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.