RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Barbarico, ma come Macbeth

Opera “barbarica” non solo per il soggetto, ma anche una certa violenta elementarità che lo rende vera e propria epitome degli “anni di galera”, Attila è stato però amato da direttori raffinatissimi: Giulini (che lo rilanciò nel 1951, anno del centenario verdiano) e Muti (che nel corso dei decenni ne ha fatto una delle sue partiture di culto), Chailly e Sinopoli (che, forse un po' intellettualisticamente, diceva di scorgere una forza rigenerante proprio in certi affondi rudimentali di questa musica). Perfino Abbado, che mai affrontò Attila nella sua interezza, non seppe sottrarsi al suo fascino, dirigendone un paio di pagine in sedi antologiche. La decima opera di Verdi resta, insomma, un oggetto ben più frastagliato di quella sorta d'aggiornamento del mito del buon selvaggio sotteso all'analisi di Sinopoli, e decifrarlo solo come melodramma patriottico-risorgimentale sarebbe riduttivo. In questa prospettiva l'Attila che ha inaugurato la stagione del Teatro delle Muse di Ancona, pur non baciato da personalità di spicco, poteva contare su due fattori utili a ridisegnarne i contorni drammaturgici: un cast tutto di debuttanti nei rispettivi ruoli, che garantiva una sorta di verginità senza pregiudizi interpretativi, e una felice unità d'intenti tra lettura musicale e lettura registica.

Partiamo da quest'ultimo punto. Attila è, sì, l'ultimo anello di una catena – iniziata con Nabucco, proseguita con I lombardi alla prima crociata e Giovanna d'Arco – di un Verdi intento a edificare un'ideale tetralogia di drammi storico-religiosi, più corali nei primi due casi e più incentrati sui singoli personaggi nella Giovanna e nell' Attila; ma è pure l'opera che precede immediatamente il Macbeth. In quegli anni di fermenti vertiginosi (il re degli unni esce dalla penna verdiana nel 1846) il 1842 del Nabucco sembra già relativamente lontano, mentre il 1847 del Macbeth sta bussando alla porta. Ne sono convinti, in questa edizione anconetana, tanto Marco Guidarini quanto Mariano Bauduin. Il primo, sul podio dell'Orchestra Sinfonica Rossini, ce lo dice già da un preludio tetro e frammentato, dove il senso panico della tragedia convive con sotterranei incantamenti, proprio come nell'analoga pagina introduttiva del Macbeth (e Bauduin, senza sovrapporsi alla musica, contrappunta con stregonesche immagini avvolte nella penombra del proscenio, a loro volta evidente rimando all'incipit del capolavoro verdian-shakespeariano). Quando poi la vocalità inizia a reclamare il suo ruolo prioritario, Guidarini – nell'indirizzare i cantanti – rinuncia a quel marchio di fabbrica del Verdi “di galera” che è la giustapposizione tra cantabile e ritmico scandito, sintetizzandoli in un declamato melodico che sarà la nuova frontiera del Verdi maturo (e destinata a trovare proprio nel Macbeth una prima sperimentazione). Non potrà competere con l'idiomaticità verdiana di Muti, né con l'infallibile chiarezza di Giulini, ma resta un concertatore sempre puntuale: amministra senza perdere un colpo gli amplissimi Finali del primo e secondo atto e, per quanto riguarda quest'ultimo, riesce pure a far cogliere come nessun altro le similarità – ennesimo trait d'union delle due opere – tra il coro delle sacerdotesse e l'Ondine e silfidi macbethiano.

Bauduin, a sua volta, asciuga Attila dalle stilizzazioni a-psicologiche ancora presenti nel Nabucco e negli altri affreschi del Verdi “religioso”, puntando su una forte evidenza teatrale: il sipario che incornicia molti momenti della vicenda; certe convenzioni restituite senza complessi culturali (i cantanti, prima della fatidica cabaletta, danno le spalle al pubblico per girarsi poi di scatto quando attaccano, proprio all'antica italiana); il fondale dipinto – la regia trova ottimo supporto nelle scene di Lucio Diana – sfondo dell'incontro tra Attila e Leone Magno, che riassume tutta una cultura iconografica sull'argomento evitando però di scantonare in preziosismi citazionistici. Verrebbe da parlare di una messinscena “shakespeariana”: non solo in senso esplicito – le fronde dell'ultimo atto sono un richiamo alla foresta di Birnam e dunque, ancora una volta, al Macbeth – ma ideale, nella consapevolezza che tutto il teatro di Verdi, da un certo momento in poi, guarda a Shakespeare. Tanto più, quindi, dispiacciono talune cadute che intaccano un esito altrimenti pregevole, dalle luci non sempre centrate (bagliori e procelle del Finale secondo restano sulla carta) all'inadeguatezza scenica dei coristi (tra l'altro un po' sottodimensionati rispetto ai desiderata fonici, ma questo è un altro problema); e il (multi)uso di quattro palestrati figuranti è troppo insistito, fino a risultare – sulla distanza – gratuito.

Diligente e non sempre incisivo, il quartetto protagonistico trova nel tenore l'elemento più interessante: Sergey Radchenko ha pronuncia perfettibile ma accento sempre calzante, mostra il coraggio – poco tenorile – di anteporre la pregnanza della frase alla bellezza del suono e, in definitiva, trasforma in vero personaggio uno degli “amorosi” più banali creati da Verdi. Marta Torbidoni non è il soprano drammatico di agilità che Odabella dovrebbe essere, però simula bene e trova la giusta grinta senza che l'emissione ne scapiti (certe disomogeneità sono fisiologiche rispetto ai repentini sbalzi di estensione imposti dalla partitura). Anche se, quando arriva alla grande aria patetico-malinconica del primo atto, ci si rende conto che è questo, e non quello bellicoso, l'aspetto del personaggio che le è più congeniale. Sostanzioso al centro ma schiacciato in alto (purtroppo proprio sul registro superiore insiste di più il ruolo), Vitaliy Bilyy è un Ezio poco appagante sul fronte canoro come su quello interpretativo. Quanto ad Alessio Cacciamani è un Attila volenteroso, forse intimidito dal cimento affidatogli, tanto gagliardo scenicamente quanto prudente vocalmente. Il volume risonante non arriva a compensare un timbro piuttosto scialbo. Se la dizione è ben scolpita, latita però un vero fraseggio. In ogni caso, ad maiora.

Paolo Patrizi

4/10/2022

La foto del servizio è di Giorgio Pergolini.