RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

 

Attila al Magnani di Fidenza

«Potere e politica»: così è stata sottotitolata la XXIV edizione del Festival Verdi di Parma. Il fil rouge che lega le quattro opere in cartellone quest'anno, infatti, è proprio il rapporto tra queste due entità. In ordine cronologico, come verranno ascoltate e presentate dallo scrivente, saranno l'Attila, La battaglia di Legnano, Un ballo in maschera e Macbeth nella versione francese del '65. Quattro titoli che lasciano in disparte il solito triangolo amoroso, o lo vedono da una prospettiva insolita, che non ne fa il centro d'interesse delle trame, segno, anche questo, di un Verdi disposto a rischiare andando oltre le convenzioni della sua epoca.

L'Attila, la sua nona opera, dall'omonima tragedia di Werner e seconda ad essere stata scritta per la Fenice dopo l'esito convincente dell'Ernani nel 1844, ebbe la sua première il 17 marzo 1846, ma l'accoglienza non fu altrettanto entusiasta. Vuoi perché scritta sotto pressione in un momento di salute non florida, con frequenti attacchi di gastrite, vuoi perché portata avanti tra Milano e Busseto, l'Attila è figlia di un periodo difficile per Verdi, talvolta accusata di faciloneria, di sbrigatività, tutta basata su quelle cabalette sulle quali ormai si era fatto la mano e sulle quali sapeva imprimere il suo marchio di fabbrica, di sicura presa sul pubblico. Eppure a ben vedere, al netto di alcune debolezze drammaturgiche date dalla diserzione di Temistocle Solera (scritto il libretto, era partito per Madrid senza dare a Verdi la possibilità di correggerlo e rifinirlo come suo solito; dovette ricorrere a Piave, ma, venuto a saperlo, Solera si offese e decise di non collaborare più), anche qui vi è la voglia di sperimentare soluzioni innovative, dalla scelta di una voce grave come protagonista, come già nel Nabucco, a scene di natura come la tempesta e l'alba sulla laguna: tempesta, lontana prolessi di quella ben più efficace del Rigoletto (perché psicologica, oltre che naturale), e alba che avrebbe di sicuro sorpreso i parigini, quando l'avrebbe presentata all'Opéra, secondo i disegni che appaiono dalle lettere dell'epoca. Ma, sebbene l'anno dopo Verdi approdasse a Parigi non con l'Attila ma con Jérusalem, pure qualcosa di quella fascinazione coloristica dovette restargli, se rifacendo I Lombardi ci piazzò una nuova alba in musica.

Per quell'alba aveva anche pensato a una messinscena grandiosa, con carrelli carichi di candele mossi su e giù dietro le quinte per dare l'idea del Sole che sorge. Al Teatro Magnani di Fidenza, dove l'Attila è replicato il 3 e l'11 ottobre 2024, si è dovuto giocoforza rinunciare a questo e a più moderni allestimenti, perché si è optato per l'esecuzione in forma di concerto (peccato solo per l'unico intervallo fra primo e secondo atto, che ha costretto pubblico e artisti a due full immersion di suono). Al dedicatario del Teatro forse sarà dispiaciuto, quel Girolamo Magnani che nel 1853 decorò in quattro mesi il Regio di Parma e divenne in breve lo scenografo preferito di Verdi, allestendone una decina di titoli. Ma d'altro canto il Magnani di Fidenza, pur con una variopinta veste cromatica che ne fa uno dei più belli e caratteristici d'Italia, non si sarebbe prestato, date le dimensioni ridotte, agli spazi aperti e marini di alcune scene dell'Attila.

A scanso di incappare in regie improbabili e degradanti, meglio lasciare alla fantasia il compito di vestire coro e solisti non dei frac con cui si sono presentati ma di adeguati costumi scenici. E chi l'ha detto che debbano per forza fare «effetto Asterix»? Tanto più che a conoscendo il libretto, si poteva seguire a occhi chiusi. La direzione È stata affidata a Riccardo Frizza, che ha condotto la Filarmonica Arturo Toscanini con adeguato polso senza esagerare nelle dinamiche, anzi, calibrando a dovere le forze orchestrali in rapporto alle dimensioni della sala, alla sua acustica e al Coro del Regio di Parma, ben amalgamato da Martino Faggiani e presente solo in parte per le suddette ragioni di spazio. Familiare del repertorio belcantistico italiano, ospite fisso del Festival Donizetti di Bergamo, la sua è una lettura estremamente equilibrata, coinvolgente ma discreta, in grado di appoggiarsi alle melodie senza imbolsirle e senza (sovrac)caricare quegli zumpappà di inutile enfasi.

Giudizio globalmente positivo per quanto riguarda il cast, risultante dalla media di alti e bassi. L'impressione generale è stata quella di un graduale miglioramento nel corso della recita (e questo vale anche per l'Orchestra, il cui suono di fagotti e violoncelli nudi nell'incipit del Preludio non ha dato dapprincipio l'idea di una perfetta fusione timbrica). Dieci e lode all'ottimo Giorgi Manoshvili, un Attila giovane e altero, ben calato nella parte, dotato di varietà stilistica nel canto, fiero e nobile quando occorre, quanto appassionato con Odabella, con la quale, nell'atto terzo, diviene quasi un sospiroso amante; e questo, sia perché permeato di intenzione drammatica, nella buona tornitura della parola, sia perché dispone di voce solida, grave, di buon volume, un timbro scuro, anche se non scurissimo, un registro medio caldo e pastoso e una impressionante facilità in acuto. Con l'Odabella di Marta Torbidoni, già apprezzata in altra sede, si resta su un livello di pregio, per quanto il suo ingresso sia stato un po' spigoloso; al netto di queste spigolosità, tuttavia (acuti un po' aspri e “lanciati”, controllo vocale che è andato definendosi man mano), la sua prova complessiva si attesta su esiti molto validi e soprattutto molto espressivi, in grazia di uno strumento ampio, spesso, rotondo, di grande proiezione, con centri molto belli, un involo sicuro in acuto e un buon affondo nei gravi, senza troppo perdere di densità. Piuttosto agili anche le colorature, per quanto concesse dal grande peso specifico della sua voce.

Solido e vibrante anche l'Ezio di Claudio Sgura, che ha dalla sua una voce scura, timbrata e vibrante, ma che fatica in acuto e oscilla un po' sul diaframma. Tuttavia, a fronte di un «la patria leverà» sicurissimo e più che ben fatto, pur nell'acuto del suo Sol (!) e a un È gettata la mia sorte di tutto rispetto, vi è poca dolcezza, qualche legnosità di troppo in Dagli immortali culmini. Di lui arriva soprattutto l'idea dell'uomo tutto d'un pezzo, del militare sdegnoso, più che dell'ambasciatore romano o del barattatore di favori politici.

D'altro canto, se Verdi era soprannominato “l'Attila delle voci” un motivo c'era. E non era per le estensioni, ma per il grande ventaglio d'espressioni che richiedeva al cantante. Sotto questo aspetto, si deve essere clementi con Antonio Corianò, chiamato a salvare la recita in extremis dopo il forfait di Luciano Ganci. Il suo Foresto è ben interpretato, ha timbro chiaro, squillante, benché un poco aspro; talvolta la voce risulta “piatta”, non ben proiettata, forse a causa di un canto di gola, che forzando arriva agli acuti ma li “buca”. Punto debole per lui sono i passaggi di più aperto declamato, come nel prologo e nell'atto terzo, mentre negli interventi secchi ed eroici, come nel banchetto del secondo atto, riesce a sfoderare insospettata e convincente baldanza, forza e sicurezza.

Da segnalare infine anche il bravissimo Leone di Gabriele Sagona e l'ottimo Uldino di Francesco Pittari, chiamato a sostituire Anzor Pilia in questa recita e in altri spettacoli del Festival, che dà come gli altri il meglio a voce calda dopo l'intervallo. Recita nel complesso riuscita e pubblico soddisfatto.

Christian Speranza

5/10/2024

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.