RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Macbeth francese… in francese

«Dopo la prima dell'Attila, Verdi, osservando le prescrizioni dei medici, si prese sei mesi di riposo e, nel luglio 1846, andò a Recoaro per una cura termale: soggiorno […] fecondo per la compagnia di Andrea Maffei […]. Dalle conversazioni con lui maturò, verosimilmente, l'idea di mettere in musica Macbet». Così Paolo Gallarati sunteggia, nel suo Verdi (Il Saggiatore, 2022), la genesi del decimo titolo della produzione verdiana. Fresco di separazione (giugno '46) da quella contessa Clara che aveva accolto nel suo salotto milanese l'esordiente “Peppino” dopo il trionfo di Nabucco, Andrea Maffei era un poeta, letterato e traduttore che prodigò molte delle sue energie per la divulgazione della letteratura inglese e tedesca in Italia, traducendo soprattutto Schiller. Nonostante la grande fascinazione di Verdi per Shakespeare, non è un caso se tra le sue opere ne figurino ben quattro tratte proprio da Schiller contro le tre ispirate a Shakespeare. Merito se non esclusivo quanto meno grande, quello di Maffei, che glielo fece conoscere. E che gli fece conoscere, tra le altre cose, anche la traduzione italiana di quel Macbeth che Schiller aveva a sua volta tradotto nel 1799 per l'Hoftheater di Weimar. Fu così che avvenne il primo contatto “teatrale” di Verdi col Bardo.

Un contatto dalla forza dirompente, che fece mettere a segno al Verdi «di galera» uno dei successi più clamorosi: trentotto chiamate alla prima del 14 marzo 1847! Sulla base delle stagioni più recenti, il Teatro della Pergola di Firenze sarebbe stata la piazza giusta per un titolo che tirava in ballo effetti speciali come apparizioni di spettri e trame soprannaturali: «tra il 1840 e il 1843 vi furono rappresentati Gli anglicani [Ugonotti], Roberto il diavolo di Meyerbeer, Il franco cacciatore di Weber, opere che contengono alcuni spettacolari quadri scenici fondati sulla presenza del fantastico» (Gallarati, ibidem).

Uno dei motivi che spinsero Verdi a pensare di proporre il suo Macbeth all'Opéra di Parigi appena dopo il debutto italiano fu forse, tra gli altri, anche lo spettacolarismo delle scene delle apparizioni (secondo e terzo atto). Lì per lì non se ne fece nulla; ma diciassette anni dopo, nel marzo del 1864, fu il direttore del Théâtre Lyrique Impérial di Parigi, Léon Carvalho, a proporlo a Verdi. Le cose stavolta andarono bene, e tra il dicembre del '64 e il febbraio del '65 ecco rimaneggiata la partitura per i gusti parigini, con pagine composte ex novo, come i ballabili di prassi, e altre ripensate alla luce di una finezza psicologica, se possibile, ancora maggiore rispetto alla versione del '47. Il libretto di Maffei venne rivisto in parte da Piave e in parte dal duo Verdi-Strepponi, per poi essere tradotto in francese da Charles Nuittier e Alexandre Beaumont, che faticarono non poco a rendere la prosodia, la metrica e soprattutto il senso del testo italiano nel gallico idioma. Ne venne fuori una sorta di «pasticciaccio» che in parte Verdi aveva previsto: la traduzione francese di un testo italiano ritoccato, derivato dalla traduzione tedesca della tragedia inglese, non poteva che conservare solo omeopaticamente la forza dell'originale shakespeariano. E l'accoglienza tiepida dei parigini, il 21 aprile 1865, ne fu la dimostrazione. D'altro canto, per contratto, questa versione tradotta avrebbe dovuto avere circolazione limitata alla Francia e a paesi limitrofi francofoni (Belgio e Paesi Bassi).

Quella che oggi viene rappresentata di solito è la versione francese con testo italiano, quale fu concepita e composta da Verdi, e che debuttò solo molto più tardi alla Scala di Milano, il 28 gennaio 1874 (lo stesso anno del Requiem, per intenderci).

La scelta del Festival Verdi di Parma di rispolverare il Macbeth francese… in francese si configura perciò come ardita e originale, soprattutto se calata nel contesto della kermesse verdiana per antonomasia, di cui quest'anno rappresenta il fiore all'occhiello e che ne ha inaugurato la XXIV edizione giovedì 26 settembre, anche se qui verrà commentata la seconda recita di domenica 6 ottobre 2024. Un fiore all'occhiello, sottolineo, tutto locale. Roberto Abbado aveva già inciso per la Dynamic, tra l'11 e il 13 settembre 2020, la World Prèmiere of the 1865 French version for Paris Sung in French, come si legge sulla copertina del CD registrato presso il Parco Ducale di Parma. E di nuovo torna, stavolta al Teatro Regio della stessa città, sempre alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini (e della banda dell'Orchestra Giovanile della Via Emilia dietro le quinte), per dare veste musicale al primo allestimento in tempi moderni, firmato da Pierre Audi, con scene di Michele Taborelli, costumi di Robby Duiveman e luci di Jean Kalman e Marco Filibeck. La sua è una direzione che si potrebbe definire elastica, variabile a seconda dei contesti e in linea coi repentini scarti di registro dell'opera. Quanto poi questa elasticità sia realmente espressiva, è da valutare caso per caso, altalenando tra esiti più e meno riusciti. Nel complesso, stringe e sostiene bene in alcuni punti, per poi perdere di tensione in altri, con scelte agogiche e dinamiche non sempre condivisibili. Il Preludio al primo atto, ad esempio, è quasi corrivo; particolarmente energico il primo coro di streghe, ma il duetto tra Macbeth e la moglie, al primo atto, che dovrebbe suonare ansiogeno, teso, “notturno”, fatica a trovare la giusta pregnanza drammatica – stessa cosa per il duetto che apre il secondo atto –, così come il coro Ah! frappe un traître, l'equivalente di Schiudi, inferno, che, più che esprimere scandalo o sdegno, esprime stupefazione, come se attonita, la corte non credesse a quanto ha appena udito da Banco. E via dicendo. Da segnalare l'ottima riuscita della scena delle apparizione e dei ballabili al terzo atto, una delle rarità di questa edizione, grazie anche a un'orchestra plastica e scattante. E, parlando di rarità, non si può non menzionare l'inclusione del coro Sylphes! légeres enfants, ovvero Ondine e silfidi, spesso tagliato. Martino Faggiani, con impeccabile solerzia, porta qui il “suo” Coro, quello del Regio di Parma, a livelli di grande compattezza e a un'impeccabile risultato artistico, così come in O patrie!, cioè Patria oppressa, di grande trasporto, e in Macbeth! où donc est-il, ovvero Dov'è l'usurpator, agile e fluido. Menzione a parte per l'ottima prestazione della sezione femminile nel rendere les sorcières.

Se il cast non è immune da una pronuncia un po' approssimativa del francese, bisogna concedergli l'attenuante di essere al debutto in questi ruoli. Chi si salva anche da questo punto di vista è il Banco di Michele Pertusi. Il basso parmigiano mette al servizio del testo un fraseggio elegante e una buona dizione, assieme al ben noto timbro caldo, a una voce duttile, sempre sul fiato, e a movenze ed espressioni credibili (quando viene legato a una sedia assieme a Fleanzio (il figurante Nicholas Zampa), l'espressione di dolore delle corde che lo stringono è di grande comunicatività): caratteristiche che nel tempo confermano la statura di questo inossidabile interprete, purtroppo in questo caso non abbastanza valorizzato da un ruolo che si esaurisce tra primo e secondo atto, benché, con escamotage registico, lo si faccia ricomparire come spettro vestito da re al terzo.

La «coppia iniqua» trova un felice connubio nell'accostare Ernesto Petti a Lidia Fridman. Del primo, baritono solido, di buon calibro, buona espressività e timbro chiaro, si apprezza l'attitudine lirica, la pastosità densa e soprattutto la capacità di far evolvere il personaggio dai dubbi del primo atto ai cedimenti del secondo, sino al terzo, alla scena delle apparizioni, ancor più espressivo e vocalmente presente a se stesso, dove appare ben coinvolto anche dal punto di vista attoriale – gli viene anche richiesto di partecipare alle coreografie con Lady Macbeth durante il ballabile delle streghe –, per concludere con una Honnoeurs, respect, tendresse (cioè Pietà, rispetto, onore) di forte intensità, preceduta da un filato uniforme e leggero. Evoluzione forse non casuale, dato che l'emergere delle fragilità psicologiche va di pari passo con un mettersi a nudo del personaggio, e quindi di un suo rivelarsi man mano, anche attraverso il cantato.

La seconda è una Lady Macbeth che scenicamente si impone per il physique du rôle: alta e slanciata, sovrasta non solo psicologicamente il marito nei duetti e nelle scene d'insieme – come quella del banchetto, dove si dimostra padrona del palcoscenico. Le espressioni del volto sono poi quanto mai adatte a rendere la glacialità di un personaggio ossessionato dal potere. Non si scompone mai, infatti, mettendo sempre distanza fra lei e ciò che la circonda. Si supera poi nella scena del sonnambulismo, dove appare diafana e ormai distante, quasi dimentica delle nefarie azioni degli atti precedenti, con espressioni questa volta assenti, dando modo alla musica di Verdi di avvolgerla perfino con uno sguardo di pietà. Se questo è il versante attoriale, vocalmente Fridman conferma lo strumento scuro e brunito con cui ha già dato vita ad altri personaggi verdiani: ma mentre per la Giselda dei Lombardi dell'anno scorso qui al Festival Verdi sembrava una voce, appunto, fin troppo scura, per la Lady Macbeth di quest'anno, che interpreta per la prima volta in francese ma che ha già in repertorio come personaggio, pare adattissima a rendere quel timbro “sporco” che voleva il Bussetano. Statuaria, non teme di pescare nel torbido dei gravi come di innalzarsi su acuti sicuri e pieni, riuscendo sia a infondere ai suoi interventi quella freddezza che conferma con le doti interpretative summenzionate, sia a farsi lunare, trasognata e onirica in Une tache que rien n'efface! (Una macchia è qui tuttora).

Il cast si correda di un MacDuff di lusso con la voce di Luciano Ganci, impegnato in un ruolo la cui esigua lunghezza non rende giustizia al bel timbro caldo e all'ampiezza della sua voce, al suo fraseggio studiato, al bel portamento dei legati e in generale all'eleganza del suo canto: insomma, lo si sarebbe voluto ascoltare di più. La sua Ah! c'est la main d'un père (Ah, la paterna mano) è pervasa di accenti di accorata umanità, così come la cabaletta Si l'Écosse vous est chère (La patria tradita) lo è di schegge di eroismo, condiviso dal bel timbro piuttosto squillante del Malcom di David Astorga, pur con punte di direzione un po' bandistica. Validi infine, per interpretazione vocale e scenica, La Comtesse di Natalia Gavrilan, Un Médecin di Rocco Cavalluzzi, il Deuxieme Fantôme di Agata Pelosi, il Troisieme Fantôme di Alice Pellegrini e infine il poliedrico Eugenio Maria Degiacomi nel triplo ruolo di Un Serviteur, Un Sicaire e del Premiere Fantôme.

Impressioni positive controbilanciate da una regia interrogativa, che obbliga a chiedersi il perché di tante scelte. Organizzare lo spettacolo con un solo intervallo tra secondo e terzo atto, sempre poco funzionale dal punto di vista dell'ascolto, asservisce questa volta a scenografie nettamente contrastanti fra prima e seconda parte. I primi due atti si ambientano in un “teatro nel teatro”: all'aprirsi del sipario vero, se ne apre un secondo rosso cupo. E si apre su una riproduzione del Regio di Parma come specchiato sul fondo. Qualcosa di simile al Don Giovanni scaligero del 2011 di Robert Carsen. Non è uno specchio, però: ché quel fondo serve a far comparire sul palco reale prima la figura di re Duncan, poi quella di Macbeth prima e Banco poi, entrambi in alta uniforme regale, per la quale è stato fatto il paragone con il principe azzurro della Cenerentola disneyana (che andrebbe a braccetto con l'abito di Lady Macbeth durante il banchetto, lungo fino ai piedi e color perla, come i guanti fino al braccio). La scena, per il resto vuota e scura, vede le streghe in abiti e turbanti neri sedersi su sedie altrettanto nere, con Macbeth e Banco che si aggirano fra loro, negli immancabili cappotti scuri con completo nero al di sotto. Più tardi, Banco avrà uniforme grigia e cinturone marrone. Si distingue Lady Macbeth, con un bell'abito damascato prima e quello da ricevimento dopo, che perde però la sua forza diluito in uno scenario senza contesto. Radicalmente diversa la seconda parte, con grate nere simili al quadro svedese delle palestre scolastiche, illuminate da luci sempre fosche, con a volte interpolati pannelli rettangolari neri. Forse è il disgregamento della realtà “teatrale” o “metateatrale” (che fa tanto Amleto…) in quella più cruda e spoglia del “dietro le quinte” del potere? Pare l'ipotesi più accreditata per sopperire a una sospetta mancanza di idee e di coerenza drammaturgica. A movimentare quello che sembra un allestimento in forma semiscenica, data l'austerità sintetica di tante scene, è una piattaforma che sprofonda sotto il piano del palcoscenico, dalla quale si dovrebbe dedurre per esempio che la camera dove viene «assassinato il re Duncano» sia ipogea…

È proprio sfruttando queste grate che Pim Veulings fa muovere i danzatori Roberto Tallarigo, Sina Friedli, Elena Paltracca e Sara Pe ña Cigas in coreografie dalla complessa decifrazione, cui prendono parte, come detto, anche Macbeth e consorte, il quale, poco dopo, viene circondato dalle Ondine e dalle Silfidi in forma di bianchi spiritelli, i danzatori bambini allievi di Professione Danza, che agitano attorno a lui fuscelli e frascame.

Piuttosto convenzionale il coro del popolo oppresso, fra uomini in divise grigie e donne in caffettani e veli bigi che vegliano piccoli involti bianchi, i corpicini delle vittime. Parlando di «paterna mano», sembra opportuno farne prendere uno in braccio a MacDuff e farlo cullare durante l'aria. Piccola nota di coerenza in uno spettacolo piuttosto sconclusionato che però non manca di suscitare consensi da parte di un Regio affollato, il cui pubblico tributa i giusti applausi al quartetto di solisti e al direttore.

Christian Speranza

11/10/2024

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.