Onora il padre
I cantanti non sono male, ma non si è mai vista una Violetta vestita così . Neanche facciamo in tempo a sederci e uno spettatore seduto al nostro fianco, super aficionado e ultraottuagenario che ha già visto una replica dello spettacolo, butta lì la battuta. Noi, che di questo allestimento non avevamo visto che qualche foto, ma una mezza idea almeno sulla realizzazione visiva ce l'eravamo fatta, una reazione di questo genere un po' ce l'aspettavamo. Continua: …settant'anni fa comandavano i cantanti, che andavano in scena con gli abiti che avevano, e gli allestimenti erano quello che erano; poi ci fu l'era dei direttori d'orchestra, e regia, scene e costumi non contavano più niente; ora è da un po' che siamo nell'epoca dei registi… Storce la bocca. Opinione chiarita. Noi invece un'opinione preventiva chiara non ce l'abbiamo mai, tanto meno su questa nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna, in scena domenica 5 maggio 2019. Certo le poche immagini viste non lasciavano dubbi sulla rivisitazione delle atmosfere e delle scene, ma non ci fa paura nulla e ci piace aspettare per giudicare.
Mentre il breve preludio vola via, siamo già immersi in una scena luminosissima e vitale, la casa d'aste Valery's, pubblico appariscente e un po' pacchiano, maglioncini pastello portati sulle spalle, camicie chiare, ricche signore accompagnate a giovani rampanti. Il giovane regista Andrea Bernard chiarisce immediatamente dove vuole andare a parare, proponendo una lettura ipercontemporanea e asciutta: le grandi feste parigine di metà ‘800 sono diventati vernissages esclusivi, l'opulenza delle serate danzanti l'ostentazione di denari nell'acquisto di opere per arredare il salotto della seconda casa. In questa arena abbagliante colpiscono la cura nella direzione delle azioni di contorno e il tempismo di coro e figuranti, impegnati in movimenti complessi e incastrati con grande perizia; purtroppo questa scena che è sì volutamente algida, al limite dello squallore, risulta nel complesso leggermente piatta, pur dimostrando un buon impianto planimetrico utile alla complessità dell'azione.
Scriviamo queste ultime righe un po' di fretta, ansiosi di arrivare a dire quello che ci pare a questo punto il contenuto più interessante della recensione. La nostra Violetta in tailleur, impegnata a firmare documenti e dirigere commessi, è un'eccezionale Mariangela Sicilia – è doveroso citare un articolo di Le Monde che la loda per la saldezza vocale: sottoscriviamo a pieno – che fa della nonchalance con cui si destreggia contemporaneamente nel canto e nella recitazione, almeno in questa parte, la sua dote principale. Non da meno Alfredo, Francesco Castoro, una voce genuina, energica e sanguigna, la voce di un buono – un Nemorino – particolarmente adatta al tipo di personaggio, un giovane rampollo di buoni sentimenti, un po' impacciato, l'unico nella mischia vestito a toni terranei nella sua giacca di lino marrone e senza cravatta. Le scene e il disegno delle luci, a questo punto dello spettacolo sempre meno convincenti dal punto di vista puramente compositivo, acquistano tuttavia un significato: il luogo ha valore relativo, poiché tutto è incentrato sulla psicologia e sulla creazione di un secondo registro caratteriale, parallelo a quello originale voluto da Dumas, personaggi rinnovati che usano libretto e trama originali per insediarsi nella storia e tesserne variazioni. La scelta del regista approfitta quindi del semplicissimo intreccio per stravolgere i tratti salienti dei protagonisti, delineandone iperboli comportamentali e sprofondandoli nella più disperata ordinarietà. Una rilettura coraggiosa, talvolta forse un po' forzata e scontata, ma che gode di una certa freschezza soprattutto grazie a piccole sfumature di realismo che contribuiscono a cesellare i personaggi e dare ritmo alla messa in scena: ad esempio la scelta di far fischiare il microfono nel momento in cui Alfredo prende la parola davanti agli invitati, mossa azzeccata, utile alla definizione del personaggio e perfettamente inserita nella musica; oppure la scelta di traslare la malattia di Violetta verso un più metropolitano e moderno disagio psichico, o ancora, quella di suggerire le tendenze omosessuali di Gastone, un bravo e solare Rosolino Claudio Cardile, sorpreso a baciare un giovane in un angolo defilato della scena.
Nel secondo atto, l'elegantissima e potente voce di Simone Del Savio ci introduce a un Germont azzimato e minimale, gelido nel suo completo grigio scuro e papillon da archistar, che entra in scena scendendo una scomodissima scala a chiocciola – davvero infelice la scelta scenografica – e fa il suo ingresso in una casa anch'essa algida e arredata con grandi classici del design italiano anni '60 – chi ricorda l'abitazione del protagonista di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto? Da questo punto in avanti la recita ha un punto di svolta, con l'orchestra che ci regala un'esecuzione attenta e piena di pathos e i cantanti che offrono un duetto Germont-Violetta davvero di grande qualità, senza una sbavatura e con un'interpretazione emozionante e di grande sensibilità. Dal punto di vista registico inoltre, è questo il momento in cui, con il ritorno di Alfredo e svelando le ottime capacità mimiche di Francesco Castoro, completamente immerso nella parte del figlio debole e irrimediabilmente oscurato dall'ombra paterna, si compie la visione cui accennavamo e viene aggiunto quell'ultimo segmento al fatale triangolo amante-padre-figlio.
La continuazione, a parte l'ineccepibile prova sostenuta dai cantanti, non regala particolari emozioni, forse perché il giochino dei personaggi caricati e delle piccole variazioni per dare colore allo spettacolo risulta ormai scontato, sciupato, inutile. Ci godiamo il bel canto, e tanto basta a farci uscire dal teatro fischiettando. L'anziano compagno di fila, ci è sembrato che fischiettasse anche lui.
Giovanni Giacomelli
9/5/2019
Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.
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