RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Violetta (E)VAlery commuove a Genova

Si alza il sipario e siamo a casa di Violetta. Tutti sanno come inizia La traviata. Solo che qui, al Carlo Felice di Genova, la festa trasuda freddezza. E più avanti sarà anche peggio. Ma è un peggio che convince in una regia, quella di Giorgio Gallione, che gioca con la psicologia dei personaggi con indovinata appropriatezza, che forse a Verdi sarebbe piaciuta. Lungi dal dire di sapere che cosa davvero pensasse Verdi. Ma col suo averla voluta in tutto e per tutto moderna, contemporanea, secondo la sua contemporaneità, col suo essersi infuriato quando gliela rappresentarono tutta pizzi e crinoline, come s'usava cent'anni prima, sovente ha dato adito ai registi di prendersi tante libertà quante sono le stramberie della modernità attuale, della nostra contemporaneità, finendo col diventare in questo più verdiani di Verdi. Quando invece vince la sana via di mezzo, accompagnata da un pizzico di audacia che non fa mai male, si riesce a scavare in un titolo di cui si crede(va) di sapere già tutto.

Si alza il sipario, dicevo, e la festa di Violetta è, nelle parole di Gallione, «un luogo stilizzato, antirealistico, sterile, dove dominano vetro e ghiaccio, virato in un bianco e nero “ferito”, solo talvolta, dal rosso del sangue e della vita che, comunque, pulsa». Più che vetro e ghiaccio, direi plastica e marmo. Gli antipodi dell'eleganza. Eleganti sono infatti i costumi di Guido Fiorato, che pensa anche alle scene: Flora in frac nero paillettato, una Marlene Dietrich che si è data al burlesque, Violetta novella Marilyn, abito bianco e caschetto biondo platino, Alfredo in smoking, coi rever che luccicano a distanza. Tutti gli altri invitati sono in nero, coro e comprimari, vagamente rétro. Il marmo del pavimento, screziato di bianco e nero, contrasta col grande albero palesemente finto, tutto bianco, complemento d'arredo che più pacchiano non si può, a fare da lampadario, cosparso com'è di candele elettriche. Perché c'è tutto questo nella Traviata di Gallione, ripresa per la terza volta al Carlo Felice. Un'eleganza che è solo di facciata e che sfocia nella pacchianeria, nel finto, come finta è la morale che Verdi intendeva denunciare con questo titolo, fatto che com'è noto costituì il principale motivo di scandalo. Riprendere e attualizzare “quel” tipo di morale, oggi sdoganata con convivenze e coppie di fatto che ormai per fortuna scandalose non sono più, non è facile (ma un padre del 2025 come reagirebbe a un figlio che presentasse la sua nuova ragazza come ex prostituta?). Di tisi, ormai, grazie a Salk, Sabin e agli antibiotici, non si muore più: ma si muore ancora di alcol. E Violetta in scena alza ripetutamente il gomito, suggerendo una possibile causa di morte – tematica che però non viene sviluppata e si arena sostanzialmente al primo atto. Peccato, sarebbe stato coerente.

L'albero rimane in scena fino alla fine. Nel secondo atto forse diventa un melo. Pavimento e scena restano quelli, coi tendaggi leggeri sullo sfondo già presenti al primo atto, variamente lumeggiati nel corso della recita, ma compaiono mele a profusione per terra e dentro diversi sacchi neri. Dici albero, dici mela, dici una coppia felice: pensi all'Eden. Alfredo-Adamo, ancora all'oscuro del peccato originale – quel peccato che per suo padre è la relazione con Violetta – Violetta-Eva, santa e puttana come la voleva Verdi. Una Violetta EVA-lery. Una felicità ancora non turbata, edenica, appunto, è quella che accoglie Alfredo e Violetta a piedi nudi – sì, entrambi in scena a dispetto di Piave che prescrive Alfredo solo, forse lei è una sua visione in quel momento. A turbarla, un Giorgio Germont che più serpentino e biforcuto non si può: eccolo, «bianco per antico pelo» in una mise in total black, intabarrato e austero, unico orpello un crocifisso metallico che gli pende sul petto e che lo fa sembrare anche più bigotto. Oh sì, fa leva su Violetta mostrandole la foto della figlia, ma le rifiuta l'abbraccio che lei gli chiede, tenendola a distanza con un gesto della mano. Tanta parte nel duetto ha anche l'interpretazione di un Roberto Frontali magistrale, e ci arriveremo. Come padre gli concediamo il pesante manrovescio al figlio, ma come suocero si presenta glaciale come un iceberg. Pur nel rispetto per gli anziani, si parteggia per Alfredo quando lo spinge per terra per liberarsi di lui e raggiungere Violetta alla festa.

La seconda festa, quella a casa di Flora, si diceva, è peggio della prima. Una bella e formosa ragazza, che se non fosse per i microscopici copricapezzoli cuoriformi sarebbe in topless (ma praticamente lo è) viene esibita come trofeo, come carne in palio, portata in trionfo in giro per il palcoscenico, strizzando l'occhio alle feste libertine del Duca di Mantova. «Quante beltà!… Mirate». E si mirano volentieri, in effetti, anche le cosce al vento delle zingarelle, almeno del corpo di ballo che le impersona, in tutine simil-lattice rosse, col volto coperto, tranne una in nero. Che poi si scopre essere un uomo, e le scarpe col tacco che si toglie fanno presto a convertirsi in corna da toro, il toro del racconto dei matador, tutti coreografati da DEOS. Promiscuità sessuale, pacchianeria, torno a dirlo: in sala si bisbiglia «Arcore», o forse me lo sono immaginato. E la volgarità investe anche l'impulsivo Alfredo che nella degradante scena del pagamento caccia manate di banconote sotto la gonna di Violetta: una farcitura che non potrebbe essere più esplicita, eppure, qui contestualizzata, in linea col livello medio della soirée. Di certo, Gallione gioca tra realismo e surrealismo in questa regia di grande spessore psicologico, di buona valenza simbolica ma, tocca dirlo, anche con qualche défaillance.

Quelle maggiori arrivano al terzo atto. Le luci di Viviano Novelli, che prima, passando per il porpora, avevano inostrato il palco all'acme dello sdegno dei convitati, immergono ora la stanza della morente in un blu-indaco adeguatamente fosco e malaticcio, ma l'effetto di auspicabile claustrofobia è vanificato dalla scena quasi vuota, senza alcun riferimento, tolta qualche sedia di plastica nera. L'albero è ormai abbattuto come le torri di Sionne, e non c'è bisogno di spiegarlo. Lo riflette un grande specchio quadrato sospeso obliquamente sopra di esso, per consentire a Violetta di dire «Oh come son mutata!…» con un minimo di senso. Non che questo la avvicini alla famosa “Traviata degli specchi”, quella di Brockhaus. Su quello specchio si vede riflesso anche il balletto che compie l'alter ego figurato di Violetta, in un abito bianco striato di rosso che ricorda sì il sangue, ma quello dell'emottisi. E se il balletto dell'alter ego è sostanzialmente fine a se stesso, quello delle creature che compaiono sulle note fuori scena del carnevale che passa sotto in strada scade addirittura nel ridicolo, danzatori nerovestiti, funebri necrofori nel senso etimologico, alcuni vestiti da scheletro, più adatti ad Halloween che a Carnevale, uno con la maschera del dottor dea peste – voluto o no, potrebbe alludere alla première veneziana della Traviata: Fenice, 06/03/1853 – che al calare della tela ghermisce Giorgio, forse il rimorso che lo accompagnerà per sempre. Che ci facciano poi gli anonimi passanti dall'ombrello aperto a passeggiare per primo e terzo atto, a parte ricordare vagamente l'estetica degli ombrelli di Renoir o Caillebotte, non si sa. E non si sa nemmeno come uscire dall'impasse quando il «Miei cari, sedete» di Flora non fa sedere nessuno, dato che sedute non ve ne sono, o come giustificare l'ingresso di Alfredo durante il finale del primo atto, col refrain di «Amor è palpito» cantato in scena che vanifica il geniale effetto di flashback voluto da Verdi: il poetico dubbio se quella voce sia Alfredo che davvero canta in un'altra stanza o che ancora risuona all'orecchio di Violetta.

Di sicuro, la voce di Violetta risuona molto bene anche all'ultima recita, quella di domenica 19 gennaio 2025, di cui qui si dà conto: una delle quattro (su sette!) che ha fatto registrare il tutto esaurito. Merito certo dell'allestimento, che allora come adesso per il pubblico è divisivo (si è visto comunque di peggio; di molto peggio), ma, anche e soprattutto del cast, che trova in Carolina López Moreno una Violetta convincente, dotata di strumento ampio, argentino e sorprendentemente duttile: suoi punti forti sono i filati in pianissimo, uniformi e ben tenuti; ma non da meno sono i virtuosismi della temibile È strano!, letteralmente «croce e delizia» d'ogni soprano – e spesso del pubblico: ma qui possiamo parlare solo di delizie, di gorgheggi sgranati e brillanti e di apprezzabile fattura; e non dispiace la puntatura finale al Mi bemolle evitata in luogo di una più fedele aderenza al dettato verdiano. La ripresa variata di Sempre libera, la prima più spavalda, la seconda più timorosa, dimostra lodevoli capacità espressive, che emergono anche meglio in molti punti al secondo atto, nel duetto con Germont – in particolare il trasognato, attonito «Così alla misera…», che aderisce davvero all'intima confessione fatta più a se stessa che al pubblico, e il susseguente «Dite alla giovine…», che esala rassegnazione da ogni nota – e al terzo, con una lettura della lettera di chiara dizione e un «È tardi!» che ti inchioda alla poltrona. E niente: all'«Amami, Alfredo» l'occhio si vela di commozione. Che volete farci?

Francesco Meli ritrova il suo smalto e la sua clarità in un Alfredo ricco di sfumature e morbidezze meritevoli di tutti gli applausi a fine serata. Lo avevo lasciato nei panni del Corrado eroico e appassionato del Corsaro , sempre qui nella sua Genova natia, lo ritrovo in un Alfredo altrettanto ben calato nel ruolo, di cui sottolinea con voce e movenze quasi la sua ingenuità nei confronti di un mondo che in confronto Violetta capisce molto meglio e con più disincantato cinismo; colpisce in particolare il sapiente uso delle inflessioni, del legato, del portamento; lo sbozzo della parola è sempre pregno di significato, e viene articolata con attenzione in un ruolo che pare essere pienamente nelle sue corde. E quella relativa poca espressività gestuale che talvolta emerge, in parte accomunando anche Moreno, credo si possa imputare a un seguimento fin troppo pedissequo delle indicazioni registiche.

Non così Roberto Frontali, indubbiamente il più spontaneo sul piano della recitazione. Il suo è davvero, come si accennava, un Germont falsomoralista, forse financo freddo dentro, che non riesce a trovare un gesto di pietà nemmeno davanti a Violetta morente, tant'è che non le si avvicina neppure: che l'«Oh mio dolor!…» finale sia più l'equivalente di condoglianze formali che di un dolore sentito? Incredibile la naturalezza con cui al secondo atto strappa di mano ad Alfredo e appallottola la lettera di Violetta: pur prescritto dal regista, quel gesto avrebbe potuto essere compiuto in mille modi, ma fatto così ha realmente dato l'idea di un Germont père teso soltanto a salvare il buon nome della famiglia, un nome che sa di sepolcro imbiancato. Tale recitazione si accompagna a una prova vocale magistrale per solidità timbrica, rotondità di emissione e pregnanza testuale: significativo che per farsi temere, odiare e infine compatire non debba mai alzare la voce, se il ruolo fosse trasposto nel parlato. Tutto merito del come il testo è voluto e interpretato, mai abbandonando un garbo, un'autorevolezza di fondo e una certa impostazione educata che lo rende se possibile anche più mellifluo e falso – superbo in questo il suo Un dì quando le Veneri. In poche parole, un esempio altissimo di recitar cantando.

Se il livello dei protagonisti è tale, non da meno è quello del nutrito comprimariato. Spicca la fresca ed espressiva Flora Bervoix di Carlotta Vichi, come pure la valida Annina di Chiara Polese. Un timbro chiaro e una sillabazione ben scandita caratterizzano la prova di Roberto Covatta, impegnato in un riuscito Gastone. Bene anche per l'accigliato e livoroso Barone Douphol di Claudio Ottino, che piace anche per una studiata messa di voce, e per il partecipe Dottor Grenvil di Francesco Milanese. Il contorno si completa infine col Marchese d'Obigny di Andrea Porta, col Servo di Loris Purpura, col Giuseppe di Giuliano Petouchoff e col Commissionario di Filippo Balestra.

Preparato da Claudio Marino Moretti, il Coro del Carlo Felice assolve più che degnamente al suo compito, destando ammirazione specialmente nei cori spagnoli del secondo atto. Dalla buca, l'Orchestra del medesimo Teatro sa accompagnare senza prevaricare, calibrando bene il suo volume – anche se certi ppp si sarebbero voluti più sfumati, più “sottili” – sotto l'attenta bacchetta di Renato Palumbo, in grado di assicurare mano ferma e concertazione accattivante. Pur se qua e là si concede qualche taglio di tradizione, nelle ripetizioni di alcune cabalette ad esempio, la sua direzione appare animata da uno sguardo d'insieme che abbraccia i tre atti in una sua uniformità di spirito, e si distingue qui per non caricare eccessivamente i toni enfatici e per velare la partitura di nuance addirittura quasi veterobelcantistiche: nel famoso Libiamo, ad esempio, essa riesce a restituire quelle indicazioni con grazia e leggerissimo che Verdi non a caso pone sul rigo di Alfredo – in virtù anche di Meli che trova felicemente l'involo lirico –, e anche quando l'orchestra rinforza il zumpappà con fagotti, tromboni, cimbasso e archi gravi, la pagina non perde di leggerezza grazie a un rimarco non eccessivo di questa ispessita linea di basso. Da questo punto di vista, si perde un po' di mordente nel finale, che non si avverte così tragico come la musica suggerirebbe. Ma sono dettagli di una recita che merita di essere ricordata, cui gli applausi che le vengono tributati fanno da degna e meritata cassa di risonanza.

Christian Speranza

26/1/2025