RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

La traviata conclude la trilogia

Progetto intenso e immersivo, quello del Teatro Municipale di Piacenza, che tra ottobre e novembre 2025 ha portato in scena la “trilogia popolare” verdiana per due volte in due settimane. Sei recite complessive, tutte a carico degli stessi solisti, o quasi, e dello stesso staff musicale e registico, sì da dare alle tre opere un'impronta unitaria. Per l'ultima di esse, La traviata, andata in scena domenica 9 novembre 2025, si fa quindi ricorso ancora una volta alla regia di Roberto Catalano, che si avvale di Mariana Moreira (scene), Veronica Pattuelli (costumi), Silvia Vacca (luci) e Marco Caudera (movimenti coreografici).

A differenza degli altri due titoli, l'ambientazione qui è meno astratta, più riconducibile alla contemporaneità o a un vago primo Novecento, sempre sostenuta dalle cifre stilistiche dell'essenzialità e dell'eleganza, con un tocco di simbolico. Le scenografie e gli oggetti di scena son quelli con cui abbiamo familiarizzato nel corso dei due spettacoli precedenti, ma qui, come in un processo di inveramento hegeliano della storia, trovano forse la loro collocazione più naturale. L'architettura classicheggiante del fondale ex palazzo del Duca di Mantova ed ex palazzo dell'Aliaferia, con la grande porta centrale a doppio battente ad arco, tutta a lesene ed oculi, è perfetta per la casa di Violetta, che possiamo immaginare un grande palazzo nobiliare antico, nel primo atto con un lungo tavolo con caraffe, nel terzo con l' immancabile letto e comodino, dove Annina guarderà per i venti luigi; il canapè bianco del Duca di Mantova torna, assieme a qualche libro, per ammiccare all'arredamento della casa di campagna di Alfredo e Violetta nel secondo atto, assieme a un tavolino dalle linee essenziali, supporto per le lettere del primo quadro e, dopo l'alzata di un tendaggio verde che isola questi due oggetti nella dimensione privata del nido d'amore, per una delle partite a carte del secondo, a casa di Flora. Caso a parte fanno i lampadari elettrici a goccia, splendenti alle feste, uno ad altezza d'uomo nel coro delle zingarelle a mo' di palla di cristallo, poi, spenti e deposti a terra, simbolo di declino e desolazione nel terzo atto. Pochi tocchi, insomma, ma sufficienti ad ambientare il dramma in ogni sua scena, con quel plus, si diceva, di simbolico, che qui più che altrove si carica di suggestione. Il fondale architettonico di cui s'è detto appare fin dall'inizio corroso da panneggi neri, come una sorta di Blob che si insinui dalle fenditure, simbolo della salute già minata di Violetta ma simbolo anche della corruzione morale dell'ambiente – panneggi che si moltiplicano al terzo atto, fino a intaccare le quinte prospicienti il proscenio.

E torna anche il figurante calvo, pallido e magro, avvolto in nera veste, sorta di Lord Voldemort associato alla maledizione di Monterone, alla vendetta di Azucena e qui, probabilmente, alla consunzione, alla morte, cui forse non è estraneo il modello estetico di Bergman del Settimo Sigillo. Si vede presiedere all'opera fin dalla prima scena, in ombra e in angolo, mentre Violetta, durante il Preludio, siede al tavolo, lo sguardo assorto, forse rivedendo in flashback (o in flashforward, più corretto) lo snodarsi della vicenda. Vari camerieri le mettono davanti le ceneri in cui Azucena rovistava – ceneri: come le veneri di Germont, vestigia di un fuoco passato, cui si conviene dare l'addio. Ma più significative sono tre scene: la prima, in cui il figurante fa scivolare via la lunga tovaglia bianca, già macchiata d'inchiostro, sotto alla quale il tavolo nero rivela una massa informe, nera pur essa – la morale double face attaccata da Verdi, quella del sepolcro imbiancato; la seconda, in cui, al termine del Sempre libera, Violetta e figurante congiungono le fronti – il folleggiare che conduce al baratro; e, più forte di tutte, la terza, il finale in cui, dopo essersi rizzata in piedi, Violetta crolla nell'abbraccio del figurante. Vengono in mente Schubert, Der Tod und das Mädchen (il testo del Lied, intendo), l'omonimo dipinto di Schiele e tutta una serie di immagini tra il macabro e il decadente: l'abbraccio tra la morte e la fanciulla…

L'estetica del bianco e nero, come si sarà intuito, domina anche qui: il bianco (anzi, il grigio perla chiaro) dell'abito da sera di Violetta del primo atto, macchiato da aggiunte nere al secondo, il bianco della sua sottoveste al terzo, del fondale architettonico, della tovaglia, degli sparati degli uomini che contrappongono il nero degli smoking alle feste, il nero del pavimento, del cappotto di Giorgio Germont, dei panneggi che intaccano, s'è detto, le quinte. Curiosamente, anzi molto significativamente, bianco e nero sono messi da parte solo da Alfredo e Violetta al primo quadro del secondo atto, dove una maglia, una gonna, dei normali pantaloni, vengono a simboleggiare la semplicità della vita quotidiana, normale, appunto, del rapporto a due senza ingerenze esterne. Più castigati i costumi di Annina e dei domestici, legati a un look ottocentesco/primonovecentesco.

Le scelte registiche convincono, e ciò sia detto anche retrospettivamente, come sguardo d'insieme ai tre spettacoli che sfruttano lo stesso materiale scenico in modo di volta in volta sempre differente e con il trait d'union potremmo dire extradiegetico dell'ombra irata e minacciosa: il figurante, anch'esso con significati sempre diversi ma con l'idea comune di quel che di incombente che in tutte e tre le opere fa precipitare la tragedia. Doveroso quindi che salga alla ribalta a fine recita assieme al cast. E assieme a lui, ovviamente, Francesco Lanzillotta, a capo dell'Orchestra Sinfonica di Milano, in grado anche stavolta di assicurare un valido sostegno alle voci, in grazia di un polso saldo che concerta con perizia le sezioni dell'orchestra e i solisti. I tempi staccati, piuttosto tradizionali nelle sezioni medio-lente, si vivificano in quelle più animate di vigorie, di dinamiche non comuni, molto sostenute: adeguatamente diafani e trasparenti i Preludi, ad esempio, anche se si sarebbe voluta ancor più impalpabilità, più pulviscolo disperso – così come in generale nelle sezioni più “malate” dell'opera, massime nel terzo atto, dove si rileva sempre un po' troppa corporeità di suono –; svelto e scorrevole il brindisi, percussivi e decisi, anche se un po' al limite, col rischio di sottrarre parte di eleganza alla musica, i finali d'atto. Buona la prestazione dell'orchestra, con qualche nasalità insistita nei legni.

Il cast si allinea a quello del Rigoletto, con qualche comprimario di differenza. Lo zoccolo duro invece rimane. Dopo Gilda e Leonora, per Maria Novella Malfatti è il turno di Violetta Valéry. La sua natura di soprano lirico, dalla timbratura che tende allo scuro, pur con buona luminosità in acuto, le permette di dare il meglio al secondo atto, quando la cura dell'espressione e il vezzeggio di alcune frasi valorizzano bene la sua interpretazione. Nel duetto con Germont père si nota il ricorso a un'ampia gamma di sfumature, di intenti, dalla durezza della padrona di casa che non vuole interferenze nella sua vita, all'abbandono una volta capito di non avere via di scampo. Notevole il «dite alla giovine / sì bella e pura» tutto sussurrato, tenuto sul fiato, con bel controllo di diaframma. L'afflato lirico deflagra poi in quell'«Amami, Alfredo» dove, al centro del palcoscenico, con tutto il teatro puntato su di lei, Malfatti sublima il canto in pura estasi. Ora, se ciò è vero per il secondo atto, un po' in ombra vengono messe le caratteristiche necessarie per primo e terzo. Non siamo in presenza di un soprano d'agilità, e le agilità dell'È strano… sempre libera necessiterebbero di un involo, di una leggerezza e di una brillantezza superiore, anche se vengono risolte con correttezza, con apprezzabile sgrano di fioriture e con comprensibile prudenza (il Mi bemolle acuto di tradizione viene evitato per l'estremo rispetto della partitura verdiana, tratto distintivo dell'intero progetto di attenersi rigorosamente a quanto scritto, senza tagli e con tutte le ripetizioni per esteso). Lo stesso dicasi per il peso drammatico richiesto al terzo atto, qui adeguato ma prestato, si diceva, da un soprano lirico: riconferma del fatto che l'Addio del passato è di quest'atto la pagina venuta meglio. E Gilda il ruolo meglio restituito alle scene.

Alfredo si avvale ancora una volta di Francesco Meli, la cui tecnica scaltrita è messa al servizio di una fibra vocale importante, squillante e bene in maschera, utilizzata con ricchezza di colori e mezze voci, specialmente in quel Parigi, o cara accuratamente cesellato. Spiace anche qui far notare, come nel Rigoletto, la traditrice ricomparsa di quella bronchite che là gli aveva troncato la voce in Possente amor mi chiama e che qui gliela fa difettare, con esiti meno manifesti ma inequivocabili, nella ripetizione di Oh mio rimorso! Il sostegno, il calore e la comprensione del pubblico non mancano neppure stavolta, in forma di intenso applauso. E quasi a rilanciare, a dimostrazione che si è trattato di un incidente passeggero, nel secondo quadro esibisce una tempra vocale non solo ritrovata, ma rinforzata. Meli è qui una rappresentazione credibile e realistica di un Alfredo piccato, che non ha più nulla da perdere – l'attenzione si appunta più qui che non sul famosissimo brindisi, peraltro eseguito con garbo e brillantezza; gli acuti, più per potenza che per altezza di suono, raggiungono il grado della stentoreità, e quanto a verosimiglianza attoriale si registra una totale immedesimazione nel ruolo: può esserne una prova, se il petto si stringe in un groppo e l'occhio involontariamente si vela quando, una volta prostrata a terra Violetta, Alfredo le getta addosso le banconote e ancora va a raccoglierne manciate per rigettargliele, nella costernazione di coro e orchestra. Meraviglioso Verdi, meraviglioso Meli, meraviglioso Lanzillotta, che qui fa bene a far corruscare l'orchestra.

Al netto di amnesie e bronchiti, Ernesto Petti è colui che passa indenne fra tutte le Scilla e Cariddi dei possibili rischi del “progetto trilogia”. Dopo Rigoletto e il Conte di Luna, eccolo nei panni di Giorgio Germont, nei quali convince in grazia di una prestazione attoriale aderente al personaggio, sfinge impassibile che mai si scompone – quasi di routine in molte regie l'evitamento dell'abbraccio da parte di Violetta, qui proprio ignorato freddamente –, e di buone inflessioni intenzionali, che esprimono nel timbro scuro e nella voce con qualche non sgradita ruvidezza atteggiamenti differenziati. La presunta pochezza coloristica della sua prestazione, soprattutto in Di Provenza, in cui acuti forti, rotondi e ben proiettati si alternano a dei piano cullati e vezzeggiati, è in realtà, a parere dello scrivente, da rapportare a quanto commentava il Budden: un brano come questo, dalla smaccata simmetria dei profili musicali e addirittura del testo, con le frasi disposte a chiasmo, richiama volutamente strutture in voga venti-trent'anni prima, ai tempi di Donizetti: musica “antiquata” (per l'epoca) che ricalca il personaggio “antiquato” (e quanto c'è di graffiante in questo in un Verdi allora quarantenne che conviveva more uxorio con la Peppina e mal sopportava le chiacchiere sul suo conto!), e che nella sua simmetrica tranquillità tradisce un trasporto verso il figlio simulato e insincero. L'uniformità (cosiddetta) nel colore del pezzo è perciò qui un merito e non un demerito.

L'apprezzabile intervento del Coro del Municipale di Piacenza si distingue al solito per precisione e amalgama, qui più apprezzabile che in altri casi dato il canto separato delle sezioni maschili e femminili. Corrado Casati si conferma in questo un ottimo preparatore.

Di livello anche il comprimariato, a cominciare dal Gastone di Simone Fenotti e dal Marchese d'Obigny di Nicola Zambon. Ben cantati e ben rappresentati il Barone Douphol di Davide Maria Sabatino (che tra barba e occhiali ha nell'aspetto qualcosa di Bizet) e il Dottor Grenvil di Omar Cepparolli, sempre molto sonoro e scandito. Lorenzo Sivelli è per l'occasione Giuseppe, mentre Massimo Pagano fraseggia bene sia il Domestico di Flora, sia il Commissionario. Annina ha la voce svelta e fresca, anche se un po' esile, di Francesca Palitti, di cui, benché qui non abbia molto modo di emergere, si intuisce lo stampo di soprano leggero di coloratura, che sarebbe interessante riascoltare in altri ruoli. Per tutti, applausi prolungati e convinti a fine recita e a scena aperta.

Termina così il progetto sulla trilogia popolare al Municipale di Piacenza: un'avventura di cui, tra alti e bassi, si serberà gradito ricordo, quasi a ridosso del vero e proprio titolo d'apertura di stagione, ancora nel segno di Verdi: Stiffelio.

Christian Speranza

16/11/2025

Le foto del servizio sono di Gianni Cravedi e Luca Attili.