RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Il debutto di Lorenzo Viotti alla Scala

Una delle ultime occasioni in cui sono stato a un concerto sinfonico alla Scala con la propria orchestra (come dovrebbero fare tutti i teatri d'opera) si trattava di un omaggio ai settant'anni di un grande della bacchetta, in quel giorno al pianoforte e diretto da un giovane maestro mediatico. Adesso ho avuto l'esperienza contraria: il quasi debutto (Viotti aveva già guidato in un'altra sede la giovane Accademia della Filarmonica scaligera) di un altro ancora più giovane ma per ora poco mediatico – gli auguro di continuare così, ma con un cognome illustre e una bella presenza non so – e il risultato è stato più che notevole. Della sua generazione solo il più ‘anziano' – di pochi anni – Mariotti potrebbe reggere il confronto, perchè, in piú, entrambi frequentano molto sia la musica sinfonica che l'opera lirica. Per la verità io avevo già sentito questo allora giovanissimo maestro in una ripresa de La belle Hélène di Offenbach allo Châtelet parigino e già mi era sembrato da tenere d'occhio.

Viotti gioca forte, con titoli di autori sì noti, ma non in uguale misura e neanche quelli più popolari se si fa eccezione per Debussy – non sembra poi così familiare il famoso Prélude à l'après-midi d'un faune, se una signora non proprio giovanissima diceva con ammirazione e una punta di perplessità “ma che bello questo pezzo” come se di una prima si trattasse.

Primo punto importante per un maestro, sembra essere riuscito a creare un vincolo di lavoro e di fiducia reciproca con i professori dell'orchestra. Non è del tipo autoritario ma questo non gli toglie autorità e precisione nelle indicazioni, sia che impugni la bacchetta o si serva solo delle mani. Dominava stili contrastanti di una stessa epoca e praticamente non guardava la partitura – solamente ci si accorgeva nell'impegnativo Poème de l'extase di Scriabin. Non cerca l'effetto per il piacere dell'effetto e così apriva il programma con una calma e distensione praticamente da camera trattandosi di Wagner – come tra l'altro dovrebbe sempre essere. Forse il momento più personale era l'eccellente versione de L'isola dei morti di Rachmaninov, che mai prima mi era parso un poema sinfonico così interessante (indubbiamente merito dell'interpretazione). Nel titolo di Debussy il fraseggio era molto elegante e con un voluto contrasto tra la sensualità del flauto e gli altri gruppi (in particolare degli archi molto matematici e parecchio ironici), mentre in quello di Scriabin – niente più diverso dal pezzo di Rachmaninov essendo entrambi dello stesso anno e della scuola russa – si ascoltava qualcosa come un turbine inarrestabile (l'autore e questo pezzo, il più famoso di lui, non figura certo tra i preferiti del sottoscritto) che scatenava ovviamente gli applausi del pubblico presente (il Teatro si vedeva pieno, se non proprio esaurito, in tutti gli ordini). Malgrado il successo e la presenza di Riccardo Chailly in un palco non abbiamo ottenuto nessun bis.

Jorge Binaghi

31/10/2018