Benvenuti all'inferno
La società contemporanea si è altamente specializzata per creare esigenze nell'uomo: televisori, cellulari, abiti, trattamenti estetici e sentimenti. Sì, anche i sentimenti vengono oggi vissuti soprattutto come esigenza commerciale, come esigenza cioè in grado di crearti altre esigenze per sentirti sempre più omogeneizzato, o come si dice, integrato, nella società. La famiglia, e la miriade di sentimenti ben commercializzabili ad essa connessi, rientra a ottimo diritto nelle esigenze create dalla società consumistica: le marche di biscotti propongono idilliache immagini di famigliole lustre, ordinate e ben vestite sedute al tavolo della prima colazione, le case di moda per bambini affollano i rotocalchi di adorabili bambolotti orgoglio delle mamme, sempre ben puliti e soprattutto perfettamente immobili o intenti ad ordinatissimi giochi; san Valentino è un tripudio di affettuosità, baci, fiori e gioiellini offerti da galanti giovanotti o attempati signori, rispettivamente fidanzati e mariti assolutamente innamorati, e soprattutto i secondi, lontanissimi dalla realtà maritale che si concreta dopo pochi anni di matrimonio. Insomma, un mondo creato per creare esigenze che a loro volta generano altre esigenze… Ma in realtà cos'è la famiglia? È davvero un'esigenza affettiva, necessaria e imprescindibile della vita umana? Forse, ma è anche vero che in tempi non troppo lontani non era oggetto di tutte queste cure mediatiche: era qualcosa che faceva parte dell'umano, ma che non veniva vissuta con eccessive aspettative. La famiglia nasceva, e poi si faceva di tutto per mandarla avanti, senza troppi perché e percome, consci comunque (specialmente le donne) che erano più le seccature e le rogne che le rose e i fiori: si sapeva benissimo che si viveva assieme più per abitudine che per altro, e che i bei sentimenti duravano sì e no lo spazio di un mattino, sostituiti velocemente da fatica, noia, grattacapi varie e suoceri assortiti.
Certo Edoardo Erba avrà avuto presente questa idilliacità forzata della famiglia scrivendo nel 1993 il suo Vizio di famiglia, grottesca e dissacrante satira dei buoni sentimenti familiari, riproposta dallo Stabile di Catania per la regia di Saro Minardi dal 3 al 12 febbraio. Una donna di mezza età, delusa da precedenti esperienze amorose, si affida alle cure di un agente per affittare una famiglia, tanto per vedere di cosa si tratti realmente: le viene appioppato un campionario umano di tutto rispetto, formato da marito fedifrago e abbastanza scurrile, suocera querula prima e poi paralitica, babysitter procace e oggetto delle attenzioni del marito, e infine due figli. Come in ogni contratto che si rispetti, la clausola essenziale è scritta in caratteri microscopici, e solo troppo tardi Annalisa verrà a sapere che l'affitto non durerà un mese, ma dieci anni. Dieci anni che se ben pubblicizzati farebbero fallire tutte le case produttrici di biscotti, marmellate, pasta e alimentari vari, tanto sono agli antipodi di quella brodaglia di buoni sentimenti che le réclame ammanniscono da mane a sera: un inferno dantesco, fatto di forzata convivenza, di aggiustamenti continui, di rinunzia alle proprie reali esigenze, in una parola un annientamento totale di questa povera donna che, alla fine, quando il contratto finalmente scadrà, non ricordandosi più di come fosse la sua vita prima, vorrà indietro a tutti i costi questa famiglia affittata, che ha avuto comunque il merito, almeno dal suo punto di vista, di farla sentire viva e utile.
Una satira corrosiva, che pone dinanzi agli occhi dello spettatore il reale inferno che si agita dietro e sotto i rapporti umani, ma soprattutto l'assoluta vuotezza del tanto decantato dialogo familiare, la solitudine condivisa, le reazioni stereotipe, il vuoto agitarsi all'interno di stanze sempre uguali, le stesse parole ripetute ogni santo giorno dell'anno.
Saro Minardi ha diretto con mano esperta la compagnia, mantenendo la levità quotidiana del testo di Erba, senza ricercare facili effetti comici, attento più all'amarezza del lavoro, alla sua descrizione di una quotidianità disarmante, dove l'iniziale attacco surreale si stempera pian piano in un grigiore assoluto, in un tran tran senza luce e senza possibilità di riscatto, sino al finale dove anche l'agente sembra aver perso la sua istrionicità ed essersi ingrigito ed invecchiato dietro ai suoi imbrogli.
Concita Vasquez, nei panni di Annalisa, ha interpretato con buona professionalità il suo ruolo, in un graduale e ben reso passaggio dall'iniziale estraneità e ribellione sino all'assoluta compartecipazione familiare, dove anche il ricordo del contratto sembra annullarsi: la mimica efficace le ha permesso di rendere partecipe lo spettatore di questo mutare del personaggio, specialmente nella seconda parte, che prevedeva appunto una suocera paralitica, impersonata dalla bravissima Elisabetta Alma, e una babysitter, Eleonora Sicurella, promossa al ruolo di infermiera e preda anche lei di un lacerante bisogno di famiglia.
Filippo Brazzaventre, l'agente, ha dato prova di una notevole vis comica, unita ad una nonchalance indifferente e sorniona che gli ha permesso di ben delineare il commerciante senza scrupoli, istrionesco e abbastanza imbroglione. Pietro Montandon, il marito in affitto, ha saputo ben evidenziare la sanguignità del suo personaggio in tutto il primo atto, per virare poi nella seconda parte verso una recitazione più pacata, che delineava fedelmente il marito ormai avvilito dalla quotidianità, distratto e privo di interessi, dando però sempre, durante tutto il lavoro, l'esatta sensazione di recitare un ruolo nel ruolo, cosa che permetteva allo spettatore di non dimenticare mai il reale bersaglio della satira di Erba.
Giuliana Cutore
13/2/2017
La foto del servizio è di Antonio Parrinello.
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