RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

L'Olandese volante sbarca a Firenze

Nel 1842 Wagner colse a Dresda il suo primo vero trionfo teatrale con Rienzi, der Letze von Tribunen; spinto da tale accoglienza, pensò di proporre l'opera che aveva composto nel 1840-41, al ritorno dalla sua fuga per debiti verso Londra, nel 1839. La traversata della Manica, con tanto di tempesta, che dirottò la nave molto più a nord, fino al fiordo di Sandwike, in Norvegia, e una leggenda nordica letta nelle Memorie del signor Schnabelewopski di Heinrich Heine, operarono il miracolo nella sua fantasia. Nacque così Der fliegende Holländer, la prima Romantische Oper su libretto proprio, andata in scena per la prima volta al Semperoper di Dresda il 2 gennaio 1843. Si tratta del primo lavoro che Wagner considerò scritto nel «nuovo stile» che stava lentamente delineando opera dopo opera, e, per questo, il primo, cronologicamente, ad essere ammesso al canone di quelli eseguibili a Bayreuth. Pur applicando ancora le forme chiuse di derivazione italiana, infatti, sebbene dilatate e deformate a fini drammaturgici, ne prende le distanze, riconsiderandole in vista di una serie di temi-reminiscenza che, passando attraverso Tannhäuser e Lohengrin, culmineranno nei Leitmotiven delle opere della piena maturità, Ring in testa.

L'atto unico concepito in origine da Wagner venne successivamente ripartito in tre Aufzügen, che in tedesco vale come atto ma anche come “scena”, a suggerire l'idea di un continuum di sottofondo, settato artificialmente per rispondere ad esigenze pratiche (così non sarà dieci anni dopo, quando attenderà alla composizione del Rheingold).

Il titolo è stato ripreso al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nel mese di gennaio 2019, proprio nella versione in tre atti, con un nuovo allestimento firmato da Paul Curran su bozzetti di Saverio Santoliquido. L'impianto è piuttosto tradizionale quanto a scene e attrezzeria: primo atto: casse e bauli in primo piano per lo sbarco del vascello di Daland; secondo atto: l'interno di una filanda (macchine per cucire al posto dei filatoi); atto terzo: una casetta di legno sulla spiaggia in primo piano, un promontorio roccioso a picco sul mare per la scena finale (Senta si precipita giù dalla rupe). Meno tradizionali, ma di dubbio gusto, le proiezioni sullo sfondo, generosamente sfruttate nel primo e terzo atto. Se i flutti in burrasca in apertura di sipario possono risultare coerenti con la tempesta sulla quale inizia l'opera, e se il cielo stellato, con nuvole leggere che trascorrono da destra a sinistra, si adattano alla scena dei marinai in festa, non si capisce la finalità del teschio bianco che appare e scompare su luci rossastre all'arrivo dell'Olandese e durante tutti i momenti associati al sovrannaturale, con immagini in continuo mutamento su macchie di colore che possono ricordare a tratti i dripping di Jackson Pollock. O meglio: si capisce, e come no, con tutti i riferimenti alla morte impossibile da sconfiggere, alla maledizione che incombe sul protagonista e a quella generale allure gotica del soggetto: ma non si rileva l'utilità di sottolinearla. D'impatto, ma un po' infantile, il ricorso ai figuranti speciali che, abiti opportunamente a brandelli, al momento del coro “demoniaco” dei marinai dell'Olandese spuntano dal promontorio con movenze vagamente da zombi (il vero coro è nascosto fuori scena: le voci provengono dal ventre del vascello). Convenzionali, ma scenicamente e teatralmente credibili le movenze e la disposizione dei solisti e del coro (meglio questo che trovate strampalate in nome dell'invocata innovazione), eccettuato per il duetto tra Senta ed Erik, durante il quale il povero tenore viene bistrattato e percosso.

Affidata alla bacchetta di Fabio Luisi, la partitura wagneriana vive un destino non sempre felice, pur prevalendo un giudizio globalmente positivo. Con l'intento di rendere un effetto “tempestoso” e marino, il metronomo dell'ouverture risulta decisamente accelerato rispetto al consueto, cosa che, giocoforza, trascina in un vortice indistinto gli effetti dell'orchestrazione: le rapinose scale cromatiche ai bassi (proprio loro, il motore dinamico dell' ouverture, raffiche di vento sonore debitrici al Temporale della “Pastorale” beethoveniana) vengono quasi completamente coperte dai fiati – questo per dare un accenno. Il resto dell'opera viene condotto invece su dinamiche più prevedibili, dando tuttavia, di quando in quando, l'idea di una tenuta non sempre rigorosa, come se l'enfasi trasmessa all'orchestra sfuggisse ogni tanto al controllo. L'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino segue da presso, sostenendo il ritmo dettato da Luisi e registrando sporadiche, veniali défaillance in alcuni perigliosi passaggi degli ottoni (corni e trombe).

Dopo un'iniziale impressione totalmente positiva sul cast, un'analisi un poco più meditata ha cercato di prendere le distanze in modo obiettivo da un'esecuzione che ha, con buona pace dei detrattori più agguerriti, regalato emozioni sincere (poche opere hanno la stessa presa addirittura fisica sull'estensore del presente articolo). È tuttavia doveroso riferire che, alla recita di domenica 13 gennaio 2019, non tutti i cantanti hanno fatto registrare la stessa qualità d'esecuzione.

Thomas Gazheli, l'Olandese, esibisce un volume vocale al di sotto di quello richiesto, ricorrendo spesso a un canto sgolato (si potrebbe dire “verista”) nei passaggi di maggior enfasi, dove dà tutto quel che può cercando di avvicinarsi ai desiderata, ma assottiglia la voce nel registro medio-acuto, quelli dall'emissione più ardua. Leggermente meglio il Daland di Mikhail Petrenko, che si è prodotto in un canto sostanzialmente parlato: non per nulla il suo momento più felice è stato durante Wie? Hör' ich recht?, dove il canto sillabato affine al basso buffo gli era più congeniale. Erik si avvale della voce di Peter Tantsits, centrata nel ruolo e piuttosto espressiva durante il duetto con Senta al second'atto, ma che perde di nitore nel terzo, diventando più scialba. Poco incisivo, e con proiezione vocale limitata, il Timoniere di Timothy Oliver. Per contro, Marjorie Owens, alias Senta, si distingue per la notevole carica drammatica della voce: robusta, stentorea, piena, vibrante, con tutte le qualità da interprete wagneriano, compresa una stupefacente proiezione che le consente di raggiungere con facilità le ultime file del teatro. Completa il cast Annette Jahns nel ruolo di Frau Mary, dall'interpretazione più che corretta ma un po' troppo formale, nei panni della rigida direttrice del filatoio.

A impersonare i marinai dei vascelli di Daland e dell'Olandese e le filatrici, sono stati il Coro Ars Lyrica di Pisa, istruito da Marco Bargagna, e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, sotto la direzione di Lorenzo Fratini. La collaborazione delle due compagini corali differenti giova sotto il profilo numerico, ma si segnalano, soprattutto all'inizio, diverse sbavature nell'intonazione e nella sincronia delle entrate, sì che l'amalgama delle voci giunge imperfetto, non del tutto omogeneo. Difetti fortunatamente via via eliminati nel corso dell'esecuzione fino al già citato coro “demoniaco”, molto suggestivo grazie a un'agguerrito e massiccio volume sonoro e ad una raggiunta, conquistata unità di espressione.

Christian Speranza

25/1/2019

Le foto del servizio sono di Michele Monasta.