Fuor del mar
Della romantische Oper tedesca così come era stata edificata da Spohr, Weber e Marschner, il Wagner dell'Olandese volante (e poi quello di Tannhäuser e Lohengrin) è, al tempo stesso, epitome e commiato: passo d'addio di un teatro musicale radicato nella cultura autoctona di saghe e fabliaux, dove le procelle della natura rimano con le tempeste dell'anima, ma anche – senza ancora azzardare un colpo di spugna sul passato – presa di coscienza verso la Durchkomposition , il Wort-Ton-Drama, l'opera d'arte totale basata sul completo equilibrio tra canto e parola. Kent Nagano e Michael Thalheimer, direttore e regista di un nuovo Fliegende Holländer appena andato in scena alla Staatsoper di Amburgo, però vanno oltre: di romanticismo nel loro Olandese non c'è quasi più traccia, plasmando un Wagner già tutto proiettato verso traguardi di atemporalità stilistica, dove echi passatisti convivono con inquietudini novecentesche. E ne scaturisce uno spettacolo che non solo resterà negli annali della città anseatica, ma rappresenta un punto di svolta nella storia interpretativa di quello che, cronologicamente, è il primo tra i capolavori wagneriani. Avvalendosi dell'originaria, più compatta stesura dell'opera (che accorpa in un lungo atto unico quanto, nella versione definitiva, Wagner spalmerà su tre atti), Nagano ottiene dalla Filarmonica amburghese una scioltezza di passo e una fluidità narrativa – ma sempre nell'alveo di un suono “sinfonico”, lontano dalle trasparenze di Clemens Krauss o dalle estenuazioni di Karajan – che stempera le ipertrofie foniche di tradizione. Dunque, la titanica e cupissima Romantik del protagonista si riconnette a modelli più antichi e incantati, quasi un aggiornamento della vecchia Zauberoper; l'aria di Daland mostra il suo debito verso quella del Rocco beethoveniano (qui come là una venalità golosa corretta da una bonarietà di fondo), anziché fare di questo personaggio una prova generale dei grandi bassi wagneriani che verranno; mentre d'un ruolo altrimenti insipido come quello di Erik viene valorizzata la cantabilità, lasciando trapelare un patetismo tenorile non immemore di Bellini e Donizetti. Ma la rivoluzione copernicana riguarda – anche nell'ottica del regista, sia pure per motivi diversi – la protagonista femminile: solitamente vetrina di sciabolate veementi e uterine, la ballata di Senta acquista contorni di squisito e lancinante lirismo come non si era mai ascoltato, grazie pure all'assoluta compenetrazione di Jennifer Holloway.
Se Nagano guarda al passato, Thalheimer proietta Wagner nel futuro. Il suo è un Olandese novecentesco, psicanalitico, al femminile. Giocando la carta di una contemporaneità atemporale (i costumi sono di Michaela Barth), racconta l'opera “in soggettiva”: tutto viene visto con gli occhi di Senta, intesa non come ennesima eroina catartica e sacrificale della galleria muliebre wagneriana, ma donna-bambina alle prese – ibsenianamente, verrebbe da dire, data la matrice norvegese della storia – con le sue angosce e i suoi fantasmi. Sebbene il personaggio non compaia prima del secondo quadro, Thalheimer, ancorandosi a un tempo teatrale svincolato dal tempo della narrazione (e questo a ben vedere è più wagneriano d'una fedeltà alle didascalie), pone Senta in palcoscenico sin dall'ouverture: avvolta in un sacco da spazzatura, ne emerge – scena d'impressionante plasticità – proprio mentre in orchestra risuona il Leitmotiv della redenzione, bruco uscito dal bozzolo ma non ancora farfalla, compressa da un microcosmo dove oltre al padre autoritario e al fidanzato ansioso pure le altre donne sembrano congiurare a suo danno. Sicché la scena delle filatrici è vissuta come l'ennesimo incubo, con Senta che, ranicchiata, si tappa le orecchie per non ascoltare le ossessive esortazioni della nutrice e delle amiche.
In tale cornice solipsistica non è poi così strano che manchino in scena due elementi-chiave come il ritratto dell'Olandese e l'arcolaio: restano circoscritti nella mente della protagonista, così come – in quest'opera di vascelli e flutti in tempesta – neppure del mare si trova alcuna traccia, nella regia di Thalheimer. Buio e nudo, il palcoscenico presenta un labirinto di veli e cortine (scene di Olaf Altmann) che i personaggi attraversano sperdendosi, e Senta non riesce comunque a oltrepassare. Tutto il resto si limita ad andare per segni, dalla cascata di coriandoli evocante il denaro che Daland assapora al zigzagare luminescente delle torce elettriche dei marinai norvegesi, contrappunto alla muta oscurità della flotta olandese; e in questo schematico paesaggio dell'anima la Senta della Holloway si aggira dando vita a una creazione memorabile. Forse solo l'Isotta di Helga Dernesch con Karajan, che però fu in primo luogo un esperimento discografico, ha raggiunto la stessa capacità di restituire in chiave lirico-intimista una vocalità da sempre connotata come tragica e altisonante. Dunque, ponendosi agli antipodi non solo delle interpreti storiche (Varnay, Rysanek), ma di tutte quelle buone o medie cantanti che su tale direttrice s'incanalarono, la Holloway scardina una tradizione e, teoricamente, la rifonda. Vi riesce in virtù dell'impeccabile pilotaggio del suono, che le consente il più puro lirismo sotto l'orchestrazione più sferzante. Un ferreo dominio vocalistico derivante da trascorsi haendeliani, un'ottima estensione anfibia tra soprano e mezzosoprano e una duttilità attoriale non comune fanno il resto.
Una Senta di tale spessore ha il solo torto di mettere in luce i limiti di Thomas-Johannes Mayer, baritono robusto e timbrato, ma interprete di opaca personalità (su quali corde psicologiche arpeggia questo Olandese: anela verso l'oblio? È pervaso dal desiderio di espiazione?). Più idiomatici il Daland di Kwangchul Youn e l'Erik di Benjamin Bruns, peraltro all'interno di due vocalità tradizionali – nel senso wagneriano del termine – e, quindi, non sempre in linea con le nuove frontiere di Nagano. Icastiche le caratterizzazioni di Katja Pieweck (una Mary coetanea di Senta, non sua nutrice) e del timoniere di Peter Hoare. Quanto al coro, nel Fliegende Holländer reparto maschile e femminile restano ben distinti. Alla Staatsoper di Amburgo sono formidabili entrambi.
Paolo Patrizi
1/11/2022
La foto del servizio è di Hans Jorg Michel.
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