RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

L'Olandese in laguna

«La storia mia è breve» direbbe l'opera, se potesse parlare. Der fliegende Holländer di Richard Wagner è approdata finora soltanto tre volte alla Fenice di Venezia – per lo meno in forma completa, tralasciando pochi estratti in concerto –: nel 1961, diretta da André Cluytens; nel 1972, diretta da Nino Sanzogno; nel 1995, diretta da Isaac Karabtchevsky.

Wieland Wagner, nipote di Richard e figlio di Siegfried, ha vegliato su tutte e tre: sulla prima, quando ne curò regia e allestimento; sulla seconda, quando dopo la sua morte se ne utilizzarono scene e costumi; e sulla terza, quando ne venne ripresa in toto la produzione originale. Per la quarta andata in scena, tra giugno e luglio del 2023, La Fenice decide di far prendere il largo all'Olandese, registicamente parlando, allontanandosi per la prima volta dal porto della famiglia Wagner; e lo fa affidandosi a Marcin Lakomicki, regista polacco che si avvale delle scene di Leonie Wolf, dei costumi di Cristina Aceti e delle luci di Irene Selka.

Al primo atto campeggia la prora di un vascello – o meglio la sua intelaiatura, con cèntine e chiglia a vista – quasi di profilo, a quarantacinque gradi, col bompresso che punta verso l'alto; prora che, si capirà poco dopo, è sia della nave di Daland, da cui il Timoniere sale e scende, arrampicandosi dove dovrebbe esserci la polena (ma perché il suo braccio viene afferrato da una mano che spunta dal pavimento?), sia di quella dell'Olandese. Tutta la scena, peraltro vuota, è nella semioscurità; dietro la nave, un telo nero nasconde una palizzata di parallelepipedi grigio scuro di varia altezza, le scogliere citate dall'Olandese, ispirata, secondo la monografia, all'immagine Basalt della stessa scenografa Wolf (e in effetti paiono colonne basaltiche, come quelle della spiaggia di Reynisfjara, in Islanda, o del “selciato del gigante” in Irlanda), e a Lava della fotografa Anna Shvets. Ai tesori dell'Olandese allude il profilo della nave percorso da un filo luminoso bianco (forse un led), curiosa sineddoche che suggerisce che il brillio dei preziosi sia così intenso, che la nave ne sia talmente ripiena, da farla luccicare tutta intera, da farla diventare un prezioso anch'essa. E fin qui va bene, un po' di astrazione ma nulla di incomprensibile, tolta la cascatella d'acqua che accoglie l'ingresso in scena dell'Olandese (ma che col suo scroscio disturba l'ascolto).

Secondo e terzo atto: una cornice monocroma attorno all'azione, inizialmente beige; prende avvio lo Spinnerlied, coreografia piuttosto tradizionale di donne affaccendate, anche se non agli arcolai; costumi contemporanei anonimi; Senta, senza scarpe dall'inizio alla fine, abito blu scuro a motivi bianchi, intona la Ballata sul proscenio, al di qua della cornice, mentre un velo semitrasparente la isola da Mary e le ragazze; da outsider, canta giustamente separata dalle altre; e anche fin qui va bene, ripeto; può avere senso, anche se sa di già visto, di sperimentazioni semi-astratte che fanno e disfanno su una base riconoscibile. Ma da ora in avanti il senso viene via via perso lungo uno scollamento sempre più marcato dalle indicazioni librettistiche, a partire dall'arrivo di Erik, vestito in modo uguale all'Olandese e a Daland, giacca di pelle nera e pantaloni grigi – lo distingue soltanto il fucile che imbraccia –, anch'egli al di qua della cornice; dietro il telo scompaiono Mary e le ragazze, lasciando lo sfondo bianco; e tale sfondo bianco permane per tutto il duetto Senta-Erik, per tutto l'arrivo di Daland e dell'Olandese, che indicano a dito Senta mentre le si avvicinano (unica modifica: la cornice diventa cerulea) e per tutto il duetto Senta-Olandese, durante il quale i due restano in piedi, fermi, lui a destra, lei a sinistra, su questo palcoscenico surrealmente vuoto e bianco, in un'esecuzione più oratoriale che operistica.

Al terzo atto le cornici diventano cinque-sei, concentriche, che convergono verso un immaginario punto di fuga al centro e al fondo del palcoscenico, marcate dal filo luminoso bianco di cui sopra. E qui, col coro sullo sfondo e tutti i personaggi in primo piano, seduti uno di fianco all'altro in uno stilizzato banchetto – passerella pieghevole con bicchieri preavvitati che fa da tavola –, con Daland che, istupidito, con sguardo perso, continua a far tintinnare una moneta nella mano (altro disturbo dell'ascolto), oppure con tutti fermi in freeze uniti da una fettuccia di tessuto bianco che tengono fra le mani, si perde definitivamente il già precario orientamento.

A ciò si aggiungano i doppi di ciascun personaggio, resi da figuranti; la Senta-mimo ruota su se stessa in fondo al palcoscenico, contro le scogliere, come la statuina di un carillon , mentre quella vera canta la Ballata, e sarà proprio alla Senta-mimo che l'Olandese indirizzerà le sue ultime parole. La fettuccia bianca pare avere un significato, che, se inizialmente può essere quello del ninnolo che i marinai portano alle loro belle di ritorno dal viaggio – il Timoniere se la srotola dal ventre mentre canta «Mein Mädel, […], ich bring dir ein gülden Band!» («Ragazza mia, […], ti porto un nastro dorato!») –, dopo, quando unisce i personaggi (i veri e i mimi), o quando viene usata per bendare l'Olandese quasi fosse Rigoletto, o quando ancora è Senta a srotolarsela dal ventre, appare di difficile decifrazione. Forse un poco più decifrabili sono le cinque fanciulle in bianco, dalla bambina alla donna adulta, che l'Olandese si porta appresso, forse le mogli che l'hanno tradito (è una di queste a bendarlo), ispirate a un fotogramma di Picnic ad Hanging Rock, film di Peter Weir del 1975, il cui nesso con l'opera tuttavia sfugge, proprio come sfugge, sempre da monografia, quello con l'altra ispirazione di Lakomicki, la poesia del cantautore polacco contemporaneo Grzegorz Turnau Naprawde nie dzieje sie nic (In realtà non accadde nulla). Anche il finale è enigmatico: a destra della cornice la Senta vera, ovviamente viva fino alla fine e con tutta la scena del tuffo dalla scogliera lasciata all'immaginazione, a sinistra la Senta-mimo e sullo sfondo la più piccola delle mogli, la bambina, a saltellare in circolo con in mano – guarda un po' – la fettuccia bianca.

Il lato musicale compensa, almeno in parte, quello registico. Sul podio dell'Orchestra della Casa, che si distingue per suono terso e lucente (di poco conto le minime sporcature dei fiati durante l'Ouverture e in senso generale il fatto che ci sia ancora qualcosa da oliare qua e là durante l'opera), sale, per la recita di domenica 25 giugno 2023, di cui si riferisce, Markus Stenz. La sua è una direzione elastica, non riconducibile a un'unica linea. L'ampia introduzione orchestrale è sostenuta da ritmi serrati, nervosi e incalzanti, benché sappia poi cullarsi nei temi e nei tempi più dilatati di Senta e della salvazione. Ma a questa tensione di fondo, riscontrabile in diversi momenti dell'opera, si contrappone una predilezione per un suono slargato, in cui la fanno da padrone gli ottoni: poco prima che l'Olandese pronunci: «Wann alle Todten auferstehn», «Quando tutti i morti risorgeranno», il triplice Sol di corni e tromboni suona come un Tuba mirum, come trombe del giudizio, lungo, potente, incisivo; ma è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare di una direzione che sottolinea volentieri questi timbri bruniti; un altro potrebbe essere la loro marcatura nelle sezioni finali dell'Ouverture e dell'opera stessa, quelle che nel 1860 Wagner avrebbe sostituito alle originali chiuse perentorie con un clima più trasfigurato, più sfumato: clima che la direzione di Stenz non esalta ma anzi, ingrossando il suono in modo trionfale, “bruckneriano”, trasforma in piena e luminosa affermazione: esultanza non proprio in linea con l'happy ending per nulla convenzionale dell'opera, ma sicuramente d'effetto. Grande rilevanza viene data anche alle percussioni, con i colpi di timpani e tam tam sonori e molto teatrali. Il resto passa in secondo piano, con colori orchestrali senza troppa personalità, forse adombrati da quelli, appunto, di ottoni e percussioni fin troppo insistiti. Buona la concertazione, anche se l'orchestra copre in diversi punti il canto: colpisce il duetto Senta-Olandese, morbido, equilibrato e ben centrato, forse il brano meglio diretto dell'opera.

Il cast si presenta disomogeneo. La Senta di Anja Kampe, wagneriana navigata, è spettacolare, possiede voce amplissima, solida, dal volume imponente, cosa che investe anche l'interpretazione del personaggio, una Senta-Brünnhilde matura, monolitica, “eroica”: un po' più di risalto al lato infantile avrebbe giovato alla caratterizzazione complessiva. Qualche fatica nei fiati e negli acuti, talvolta aggrediti più che intonati, non le impediscono ad ogni modo di dominare l'arduo pentagramma senza eccessive difficoltà. Restando nelle voci femminili, piace anche la melodiosa e più che corretta Mary di Annely Peebo.

Franz-Josef Selig è convincente, e sa dar vita a un Daland credibile, con accenti di paternalismo non farsesco. Un uso intelligente della voce, calda e rotonda anche se non molto grave, una buona autonomia e padronanza dei movimenti scenici, per lo meno quelli non previsti dalla regia, ne fanno un interprete di tutto rispetto. Ben fatto per Leonardo Cortellazzi, voce chiara e presente, che tratteggia un Timoniere sicuro, a tratti languoroso. Altalenante invece la prestazione di Toby Spence: il suo Erik si distingue soprattutto nelle effusioni più liriche, dove la cavata è efficace e lo strumento espressivo, soprattutto nel registro intermedio; perde di smalto però nelle impennate all'acuto, che suonano sforzate, fuori fuoco. Delude infine l'Olandese di Samuel Youn. La voce c'è, ma nel tentativo di conferirle un'espressività maggiore, la esacerba, finendo con lo stimbrarla, e sconfinando in uno pseudo-verismo sguaiato decisamente fuori posto; a farne le spese sono la dizione e il fraseggio, che risultano frammentari, poco centrati, e la resa complessiva del personaggio, che anche in scena si atteggia a pose molto plateali non appropriate per una creatura fantasmatica, lugubre, introversa, per certi versi anche sfuggente, come è l'Olandese di Wagner; evidente poi, fin dalla prima aria, la notevole difficoltà nell'arrembare ad acuti decisamente fuori dalla sua portata.

Da lodare, per concludere, il doppio coro qui impiegato, quello stabile della Fenice, istruito da Alfonso Caiani, e il Taras Shevchenko dell'Accademia Nazionale Ucraina d'Opera e Balletto, istruito da Bogdan Plish; fianco a fianco a fine spettacolo, le due bandiere spiegate dai coristi, l'italiana e l'ucraina, hanno accalorato i già scroscianti applausi, turbati soltanto da qualche isolato dissenso rivolto a Youn.

Christian Speranza

3/7/2023