RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Napoli Die Walküre come un dramma da camera

Come giustamente osserva Carl Dahlhaus, Die Walküre è una sorta di psicodramma che trascende la sostanza mitologica per concentrarsi in un unico, fatale istante; quello in cui il Dio Wotan, come un comune mortale, comprende di essere rimasto preda di un dilemma inestricabile. Di questo carattere intimo il regista Federico Tiezzi è perfettamente consapevole. Il suo allestimento, presentato al San Carlo di Napoli nel lontano 2005, meritoriamente vincitore del premio Abbiati e oggi riproposto dall'Ente lirico partenopeo, appare estremamente attuale e denso di significato. Scevra di qualsiasi orpello spettacolare, Die Walküre viene impaginata come un dramma da camera nel quale il grande scenario del mito resta quasi sullo sfondo. Tiezzi è conscio dell'enorme portata dell'eredità wagneriana, del suo influsso sull'intera cultura occidentale. Si pensi ad esempio alla Caduta degli Dei di Luchino Visconti, nella quale la famiglia degli Essenbeck viene travolta dagli eventi da essa stessa scatenati, così come accade a Wotan nella Tetralogia. Alla base di tutto c'è una trasgressione, una violazione dei patti che non può restare senza conseguenze. Per liberarsi dai lacci che lo legano, Wotan ha generato una coppia destinata all'amore incestuoso, incorrendo nell'ira di Fricka. L'inaccettabile stravolgimento dell'ordine familiare e delle leggi, delle quali egli stesso è garante, lo costringe a dover condannare l'eroe contro la propria volontà. Il conflitto intestino esplode nel grande monologo del secondo atto, dalla densità quasi shakespeariana, il perno attorno al quale ruota l'intero Ring. Specchi circondano il Dio, evidenziando, in maniera simbolica e visiva al tempo stesso, l'impossibilità di una via di fuga. Da qui la grande attenzione che Tiezzi dedica alla recitazione. I conflitti fra i personaggi vengono restituiti in maniera perfettamente credibile, mediante una gestualità studiata nel dettaglio. Quando Fricka affronta il divino consorte, uscendo vincitrice, un lungo tavolo costellato di candelabri di grandezza decrescente marca la loro distanza, l'impossibilità di stabilire un contatto autentico. Anche nel primo atto la tensione fra i tre contendenti viene simboleggiata da un lungo desco. Il frassino nell'abitazione di Hunding è contemporaneamente albero e focolare domestico, le cui alte volute sembrano già prefigurare il rogo del Walhalla.

Toccante il momento in cui fra Siegmund e Sieglinde sboccia il sentimento d'amore. L'atto di bere reciprocamente l'idromele dal corno adombra, nella lettura di Tiezzi, il filtro d'amore del Tristan. Questo perché una fitta trama collega i drammi wagneriani, restituendo allo spettatore tutta l'ampiezza di un universo senza eguali. Pregne di significato anche le scenografie di Giulio Paolini. La cornice del primo atto punta l'attenzione sulla spada donata a Siegmund dal superno genitore, ma rappresenta anche quella sorta di ritratto di famiglia che è il fulcro dell'intera messa in scena. Le rocce del secondo atto, incastonate nell'onnipresente struttura metallica che costituisce l'elemento principale della narrazione, rimandano a una sorta di frantumazione del mondo degli Dei. Disgregazione che viene sviluppata nel terzo atto, dove gli eroi destinati al Walhalla divengono freddi cadaveri, simboleggiati da frammenti di sculture. Suggestivo il finale, al quale basta un cromatismo rosso acceso per evocare le fiamme destinate a proteggere il sonno di Brünnhilde. Adeguati infine i costumi di Giovanna Buzzi, aderenti al carattere domestico e atemporale dell'interpretazione. Un allestimento in grado di accentuare i conflitti interiori anche mediante la valorizzazione dei momenti di staticità, delle pause che indubbiamente innervano la concezione wagneriana del dramma musicale.

Nel complesso di grande rilievo l'esecuzione. Jurai Valcuha aderisce alla lettura registica mediante un'interpretazione pensata nei minimi dettagli, di taglio intimista, in grado di scavare a fondo nella psicologia dei personaggi. La perfetta alchimia fra accensioni drammatiche e pennellate liriche delinea una visione profondamente umana, il cui valore aggiunto risiede nell'equilibrio, sempre lodevole, fra golfo mistico e palcoscenico. I cantanti non vengono mai sommersi dal magma orchestrale anche a costo di mitigare, appena un poco, lo slancio impetuoso del finale primo. Pur senza possedere un rapporto idiomatico con questa musica l'orchestra, ben guidata dal podio, offre una prova generosa.

Riguardo il cast, notevole il Wotan di Egils Silins, autorevole e tormentato come si conviene. La voce è solida e non mostra cedimenti, a dispetto della massacrante scrittura. A voler cercare il difetto a ogni costo, un registro grave maggiormente timbrato avrebbe conferito più incisiva evidenza al grande monologo del secondo atto, mentre una più intensa commozione nell'addio avrebbe reso il finale ancora più memorabile. Gli sta accanto la Brünnhilde svettante di Irene Theorin, affidabile se si escludono alcune asprezze nel grido di battaglia di sortita. Robert Dean Smith è un Siegmund più dolente che eroico, appena un poco affaticato nel finale primo, comunque in grado di passare indenne le pulsioni drammatiche più spinte e di fraseggiare con morbidezza, conferendo accenti toccanti al personaggio (si pensi all'esclamazione “Schwester! Geliebte!”, dalla quale traspare tutto il suo amore disperato). Manuela Uhl (Sieglinde) ha temperamento da vendere, ma il registro acuto appare sovente forzato. Ottimo l'Hunding profondo e temibile di Liang Li, perfetta Ekaterina Gubanova nel rendere l'amara indignazione di Fricka. Inappuntabile infine lo stuolo delle Walkirie. Grande successo di pubblico in una sala gremita, con molte giovani presenze che fanno ben sperare riguardo il futuro del teatro d'opera.

Riccardo Cenci

20/5/2019

Le foto del servizio sono di Lorenzo Romano.