Rileggere il Freischütz
Un destino avverso infesta le idilliache atmosfere del Freischütz di Weber, un'aura di tragedia spira come un vento minaccioso sulla vicenda di quella che è considerata il prototipo dell'opera romantica. Parte da queste suggestioni la rilettura andata in scena a Bregenz, pensata da Philipp Stölz per le enormi capacità produttive del festival. Ridefinendo la trama del Singspiel tramite un nuovo testo, opera di Jan Dvorák, a sostituire le originali parti recitate, il regista muta le prospettive dell'opera rendendola ancor più ambigua e spettacolare. Operazione che altrove sarebbe discutibile, ma che in tale contesto trova legittimazione, sfociando in una rappresentazione dal sapore cinematografico. Che il palcoscenico lacustre sia di per sé foriero di grandi emozioni è noto, ma stavolta si è andati oltre quanto si era visto sinora. La scena rappresenta un paesaggio devastato dalla guerra dei trenta anni, un luogo gelido sul quale aleggiano i corvi e dove albergano alcune sbilenche costruzioni, sovrastate da un inquietante disco lunare. Un immaginario che evoca le tele di Breughel o di Bosch, ma anche le fantasie filmiche di Tim Burton. Prima che risuonino le note iniziali tutto è già compiuto; il feretro di Agathe compare in scena, mentre Max viene impiccato da alcuni sgherri per le sue azioni malevole. L'onnipresente Samiel, interpretato da un ottimo Moritz Von Treuenfels, tira le fila degli infausti destini. L'inizio coincide dunque con l'epilogo, mentre l'opera appare come una sorta di flashback rubato al cinema. Ci sarà ancora spazio per ulteriori rovesciamenti, che consegneranno la conclusione al lieto fine originario. Un gioco di specchi e di illusioni orchestrato da un malefico e agilissimo demone, acrobaticamente impegnato a scalare alberi e campanili, a tormentare i protagonisti con i suoi motti di spirito e le sue continue insinuazioni.
Il parlato veniva accompagnato dalle musiche, invero piuttosto anonime, scritte da Ingo Ludwig Frenzel per fisarmonica, contrabbasso e cembalo, a delineare atmosfere cupe da cabaret berlinese. Superflue e scontate alcune deviazioni rispetto la vicenda originaria, come la gravidanza di Agathe e il rapporto lesbico di quest'ultima con Ännchen, ormai un topos logoro del nostro tempo. Detto ciò, lo spettacolo stupisce per le soluzioni tecniche e per l'assoluta perfezione dei suoi macchinismi. Fra le scene più sorprendenti la cavalcata di Samiel su un cavallo scheletrico, mentre Kaspar canta la sua aria su uno sbilenco carretto. Addirittura stupefacente la fusione dei proiettili stregati, con Kaspar circondato da un cerchio di fuoco, e Samiel che compare prima sulla testa di un enorme serpente e poi, al culmine del pandemonio, sulla sommità del campanile diroccato che si squarcia con enorme fragore; il tutto condito da apparizioni di zombie e altre creature demoniache, mentre la madre di Max sorge dal suo sepolcro e Agathe si agita come posseduta su un letto issato verticalmente. Con grande impegno da parte dei cantanti e delle comparse, ai quali non viene risparmiato nulla pur di sorprendere gli spettatori. Gran merito del risultato alle luci, opera dello stesso Stölz, coadiuvato da Florian Schmitt. Nell'ambito di un allestimento molto ricco ricordiamo ancora il balletto delle ondine nelle acque del lago, degno di una performance di nuoto sincronizzato. Pregevole la parte musicale. Enrique Mazzola ottiene dai Wiener Symphoniker un suono sontuoso e brillante, ricco di sfumature cromatiche. Ricordiamo che l'orchestra è posizionata nel Festspielhaus, e che la musica viene trasmessa all'esterno dagli altoparlanti. I cantanti, naturalmente, erano dotati di microfono, per cui non sempre è semplice discernere le reali caratteristiche delle singole voci in merito al timbro e al volume. Il cast è stato comunque in grado di assolvere al proprio compito in maniera egregia. Ottimo in particolare il Kaspar di Christof Fischesser, malefico e profondo come la parte richiede. Bravissima Nikola Hillebrand, una Agathe dalla vocalità cristallina e dalla impeccabile musicalità. Stilisticamente appropriato anche il Max di Mauro Peter, il quale si disimpegnava con onore nella grande aria del primo atto. Apprezzabili gli altri, a cominciare dall'ottima Ännchen di Katharina Ruckgaber. Peccato che i sottotitoli, unicamente in tedesco, coprissero solo le parti cantate e non quelle recitate. Una traduzione almeno bilingue del nuovo testo avrebbe giovato alla comprensione di chi non è di madrelingua tedesca. Successo grandissimo in una cavea totalmente esaurita, e ricordiamo che il luogo ospita circa settemila spettatori, e che lo spettacolo è in scena per circa un mese. Numeri inconsueti per l'opera, e per questo non si può che tributare un plauso agli organizzatori.
Riccardo Cenci
20/8/2024
La foto del servizio è di Anja Koehler.
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