RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dalla pira alla gola

A chi gli rimprovera di essere un regista d'opera senza quella personalità “d'autore” sempre mostrata sul set, un maestro del cinema come Giuliano Montaldo ama rispondere che si potrà fare un Trovatore con Manrico brigatista rosso, il Conte di Luna capo della polizia e Azucena terrorista mediorientale; ma al momento della “pira” questa costruzione è destinata a crollare. In altre parole: quando si ha a che fare con un archetipo, il regista resta libero di cimentarsi in una radicale riscrittura; eppure, quando quell'archetipo raggiunge lo zenit, la macchina messa in moto si affloscerà. È una morale che torna in mente uscendo dal Freischütz – muro maestro che sta alla romantische Oper tedesca come Il trovatore sta al melodramma italiano dell'Ottocento – portato in scena da Christoph Marthaler a Basilea: spettacolo dove il tentativo di borghesizzare, demistificandolo, il mito germanico dell'identificazione tra uomo e natura (Marthaler rinuncia anche a quel colpo di fucile su cui Weber fa alzare il sipario) all'inizio dà esiti stimolanti. Mentre quando si arriva a quella sorta di equivalente della “pira” che nel Freischütz è la scena della “gola del lupo”, la destrutturazione resta fine a se stessa (non offre alcuna ricostruzione alternativa, cioè), la demistificazione retrocede a disinnescamento, lo spettacolo subisce un calo di tensione da cui non riesce più a risollevarsi. Che cosa diventa il Freischütz di Marthaler? Un Kammerspiel claustrofobico, una storia d'interni dove per selve, rupi e gole non resta il benché minimo spazio: la scena unica di Anna Viebrock disegna uno squallido club di caccia – e, annessa di lato, la stanzetta di un'Agathe donna-bambina dominata da un coniglietto di peluche – pervaso da solitudini tragicomiche, silenzi interminabili, boccali di birra come unica finestra sul mondo al punto da trasformarsi in oggetti multiuso (fungeranno da imbuto per gli effetti d'eco del canto a cappella e da crogiolo per la fusione delle pallottole magiche). A dominare è una compulsione a-psicologica, ben riassunta dalla cromaticità dello spettacolo: pochi colori accesi (dominano il verde dei cacciatori e lo sgraziato arancione del vestito di Agathe) e nessuna ombra, un po' come nelle tavole del Corriere dei Piccoli: sicché Max, Kaspar, Kuno e Kilian si trasformano negli odierni pronipoti dei personaggi immaginati da Weber, molto meno idealisti e assai più velleitari, molto meno diabolici e assai più volgari. A nessuno sarà concesso il lieto fine: anche perché chi dovrebbe essere l'apportatore di catarsi, cioè l'Eremita deus ex machina, diventa qui lo stesso interprete dello spirito maligno Samiel.

Le parti recitate del Singspiel vengono sottoposte a drastica manipolazione, ma d'altronde fu Weber il primo a dichiararsi insoddisfatto del libretto di Johann Kind. E certe libertà di montaggio che Marthaler si prende sono, forse, addirittura migliorative (imprime maggiore dinamicità spezzare l'andamento del primo atto, anteponendo la scena tra Agathe e Ännchen al patto diabolico tra Max e Kaspar). Perfino le occasionali riscritture musicali mostrano una loro funzionalità: la regia le riserva ai due momenti dove Weber incapsulò melodie popolari locali, la marcia contadina e il coro delle fanciulle sulla coroncina da sposa: trasformando la prima in un esilarante tormentone, con i cinque strumentisti della banda trasformati in attori sul palco, la seconda in una melodia per pianoforte cantata dalla sola Ännchen, qui declinata nella dimensione della zitella inglese – grazie alla presenza nel cast di una vocalista-cabarettista come Rosemary Hardy – che i casi della vita hanno catapultato nel continente. Sulla distanza, però, resta l'impressione di una ricostruzione troppo sbilanciata in favore del teatro di parola (comprese certe divagazioni satiriche sui cacciatori svizzeri, accolte con risate dal pubblico di Basilea ma poco significative per spettatori non elvetici), dove la musica retrocede in una posizione quasi ancillare. La bacchetta di Titus Engel è in perfetta sintonia d'intenti con il regista e dunque, in un certo senso, avalla tale retrocessione: se Marthaler borghesizza la trama deromanticizzandola, Engel cerca un suono cameristico ignaro dei grandi afflati sinfonico-romantici. Sicché l'anestetizzazione della “gola del lupo” e la sua notte da tregenda deriva anche dal podio. Quel che resta indimenticabile è invece l'uso materico che fa Marthaler di ogni elemento dello spettacolo: la capacità di far “recitare” gli oggetti (il fucile di Max, in primo luogo); l'orchestra che s'innalza all'altezza del palcoscenico in quei momenti in cui diventa anch'essa personaggio; gli strumentisti usati pure come coristi (i componenti della Kammerorchester Basel sono dei veri musicisti completi); l'abbattimento della linea di confine tra cantante e attore, in un circuito virtuoso di plasticità canora e recitativa. Cosa, quest'ultima, possibile solo grazie a solisti di straordinaria sensibilità artistica e tecnicamente ferratissimi. È il caso, prima ancora della Hardy (cantante-feticcio per Marthaler, che pennella con spirito la sua Ännchen matura signorina d'oltremanica anziché pulzella germanica in fiore), di Nicole Chevalier: un'Agathe che dietro le trasparenze della fanciulla imprime i colori della nevrosi, all'interno di una vocalità perfettamente calibrata tra slanci operistici e rarefazioni liederistiche. Accanto a lei, Rolf Romei è un giovane tenore dall'elegante linea di canto (ha studiato con Gedda, e si sente), compenetrato nel Max introverso e antieroico restituito da Marthaler. Mentre Jochen Schmeckenbecher, baritono più vilain che mefistofelico, vocalmente robusto sebbene non tutto l'arco dell'emissione appaia a fuoco, fa di Kaspar un progenitore di Alberico piuttosto che un discendente di Pizarro: costruendo un personaggio disperato, reietto, ma al di fuori d'ogni umana empatia.

Il resto del cast unisce un buon cantante-attore (il Kuno di Andrew Murphy), un bravo attore che è anche un modesto cantante (il Kilian di Raphael Clamer) e, nei panni di Ottokar, un anziano tenore di grazia – Karl Heinz Brandt – che canta benissimo e recita in modo formidabile (sicché pazienza se il ruolo sarebbe per baritono). A ricordarci che Bene e Male sono due facce della stessa medaglia provvede poi il giovane – ma per nulla acerbo – basso Jasin Rammal Rykala, che si fa carico dell'Eremita come del personaggio muto di Samiel; mentre l'attore ed entertainer Ueli Jäggi, interprete di tanti spettacoli di Marthaler, si ritaglia un ruolo solo recitato scritto ad hoc, che riassume (e, ancora una volta, demistifica) molti dei dialoghi parlati previsti dal libretto.

Paolo Patrizi

25/9/2022

La foto del servizio è di Ingo Hoehn.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Perrotta

Recita un'antica sentenza: «Padre Modesto non diventò mai Priore», intendendo con ciò che timidezza e riservatezza, se eccessive e paralizzanti bloccano e impediscono ogni realizzazione pratica ed ogni azione umana. Forse nessuna sentenza è mai stata più pertinente e adatta alla vita e all'opera di colui che fu certo uno dei musicisti più sfortunati della nostra terra e che risponde al nome di Giuseppe Perrotta. Nato a Catania, in via Garibaldi, il 19 marzo del 1843 dall'avvocato Emanuele Perrotta e da Giuseppa Musumeci, il giovane futuro compositore si dedicava alla musica per diletto (la sua formazione fu da autodidatta) e anche per passione, ma per non deludere le aspettative paterne, come tanti figli ubbidienti di quell'epoca, si dedicò agli studi giuridici, laureandosi in legge presso l'Università etnea nel 1862. Nello stesso anno convolerà a nozze con Antonina Ardizzoni Carbonaro, che gli darà due figli. Il suo carattere schivo ed il suo stato di giovane padre di famiglia gli impediranno di viaggiare, a differenza degli amici artisti e letterati suoi conterranei Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Mario Rapisardi, Francesco Paolo Frontini e soprattutto di promuovere, caldeggiare e divulgare le sue composizioni. Si recò solo una volta a Milano nel 1879, su sollecitazione di Verga e Capuana, ma nonostante le calorose accoglienze ricevute dal mondo musicale ambrosiano ritornò subito nella sua città. In seguito Perrotta rimase vedovo, cosa che presumibilmente gli provocò uno stato di profonda tristezza e depressione. Pertanto si ritirò gli ultimi anni della vita nel suo villino di Cibali con i figli e la madre, abbandonando la composizione musicale e morendo suicida nel 1910. Il musicista catanese diede vita a tre opere liriche: Bianca di Lara su libretto di Stefano Interdonato; Il trionfo dell'amore su testo originale dell'omonima fiaba in versi di Giuseppe Giacosa; Il conte Yanno su libretto di Ugo Fleres. Nessuna di queste partiture fu mai rappresentata e certamente anche in questo caso il carattere ostico, poco comunicativo ed austero del musicista avrà avuto il suo peso, assieme certo alla non eccezionale valenza artistica delle opere. Il suo grande e solerte amico Giovanni Verga lo incaricò, certo per aiutarlo e incoraggiarlo, un preludio per piccola orchestra da anteporre al dramma «Cavalleria Rusticana» che andava in scena a Milano, ma la partitura, giudicata di difficile comprensione, venne scartata. Tuttavia l'anno seguente venne riproposta all'arena Pacini di Catania, esattamente il 29 luglio del 1886, ottenendo un buon successo di pubblico e di critica, così come riporta ed evidenzia il Corriere di Catania dell'epoca. Il musicista fu anche autore di musiche da camera, pianistica e vocale.

Il periodico di cultura siciliana «Agorà» ha voluto commemorare alla fine di questo 2010 il centenario della morte del compositore etneo offrendo ai suoi lettori in allegato alla rivista n. 35 un volume biografico ed un CD di sue musiche al prezzo davvero popolare di Euro 7,50. Il libro scritto con estrema cura e perizia da Elio Miccichè si rivela quanto mai esaustivo riguardo non solo la vita e le opere del Perrotta ma anche del milieu artistico e culturale col quale interagì. Il testo si avvale anche di una illuminante prefazione di Roberto Carnevale, il quale coglie acutamente nelle creazioni del «Solitario di Cibali» ascendenze ed arditezze armoniche tipicamente wagneriane. Un ricco apparato epistolare, fotografico ed iconografico, nonché una veste tipografica elegante, rendono la pubblicazione degna di stare nella biblioteca di ogni storico della musica ed appassionato di storia patria.

Il CD contiene 6 Romanze per voce e pianoforte: «Aura», «Gentile», «Idol mio», «Abbandonata», «O fior della pensosa sera» «Cuor morto», «La luna dal rotondo volto», eseguite egregiamente dal soprano Stefania Pistone, accompagnata al pianoforte dalla brava Alessandro Toscano. I pezzi per pianoforte solo: «Ouverture per Cavalleria Rusticana», «Preludio dallo Stabat Mater di Pergolesi», «Preludio in mi bemolle maggiore da Otium», e «Barcarola n. 3 senza parole» sono eseguite con garbo e buon gusto da Mario Spinnicchia.

Giovanni Pasqualino

13/2/2011