I rischi del giovane Werther
Sono sovrani inarrivabili ma sovrani illuminati, i Wiener Philarmoniker.
Al Festival di Salisburgo, praticamente loro dorata, eletta “seconda casa”, con lungimiranza e democrazia – che da sempre è la loro filosofia di vita – dividono la “buca” con altre realtà orchestrali, non ultima la Mozarteumorchester Salzburg che, diretta da Alejo Perez, esegue Werther di Massenet in versione da concerto, alla Grosses Festspielhaus, protagonisti Anghela Gheorghiu (Charlotte) e Pjotr Beczala nel title role.
Del lungo “doloroso” travaglio dell'opera non diremo nei dettagli, non ora, non qui.
È nota la lunga gestazione dell'opera (oltre dieci anni) che fu evidentemente ispirata e ricavata da I dolori del giovane Werther di Goethe – curiosa la proposta che ne venne fatta a Vienna, nel 1892, un anno prima del debutto francese, ad uso e consumo di un pubblico germanofono e dunque in lingua tedesca e in quella sede, i librettisti – Blau, Milliet e Hartmann – vennero definiti dalla stampa viennese “uomini di lettere”. E' noto il viaggio iniziatico di Massenet nei “luoghi goethiani” – ma anche prepotentemente wagneriani – tra Bayreuth e Wetzlar (è qui che Johann Wolfgang passò alcuni mesi nel 1772).
È nota la resistenza di Carvalho, direttore dell'Opéra-Comique di Parigi, che non poche perplessità aveva sull'opera, la quale nella produzione del compositore francese stava pericolosamente a metà tra Manon e Esclarmonde. Né difettarono le resistenze da parte di taluni “spettatori esigenti” che in Werther –che certamente rimanda a formule operistiche segnatamente italiane, l'ultimo Verdi, sissignore, ma anche Puccini-Puccini, non solo quello delle Villi – vedevano “risonanze” wagneriane come la mancanza del coro (ve n'è uno, piccolissimo, di 6 bambini che rappresentano i fratellini e sorelline di Charlotte di cui la fanciulla, ventenne nell'opera, aveva promesso d'occuparsene alla madre morente), leit motiv e “melodie infinite”. E, in piena consonanza – se non “reviviscenza” – con i suoi “dolori”, Werther trovava non pochi detrattori non solo al debutto francese del 1893 ma anche l'anno dopo, a Covent Garden: solo George Bernard Shaw cavalcò l'onda della controtendenza riconoscendo nel lavoro di Massenet una partitura robusta e affascinante con uno stile orchestrale personale ed armonico.
E tuttavia la questione, hic et nunc, ci sembra un'altra.
Werther – che alla Scala arrivò abbastanza presto, nel 1895, e più avanti, in Italia, avrebbe avuto il suo ambasciatore per eccellenza in Tito Schipa (e frequentatissimo, poi, da Kraus e Gedda, Domingo e Carreras e persino Jonas Kaufmann, che di Salisburgo è oggi divo d'incontrastato sex appeal, uno di quelli che viaggia solo in Mercedes con i vetri oscurati, per intenderci), Werther, dunque – attraversato, tra III e IV atto, da uno dei più intensi intermezzi sinfonici della storia, è pur sempre un drame lyrique. E come tale, con buona pace di fissità romantiche e “decadenti” stucchevolezze, recupera il suo stato di grazia dall'azione scenica.
L'esecuzione in forma di concerto, pertanto, rischia grosso, specialmente se ne sono officianti quegli interpreti che di scena, scenografia e palcoscenico hanno bisogno per diventare credibili, palpitanti e, in somma ipotesi, carismatici. Insistiamo. La forma di concerto impone (agli interpreti) una prepotente capacità d'affabulazione, una “teatralità” d'enunciato: prendiamo esempio da Cecilia Bartoli e coloro che, come lei, non trascurano una sola sillaba nella parola cantata, in questo Werther, la lingua francese è un'opinione… E presenza scenica, ça va sans dire, che, costretti o no al leggìo, i cantanti amministrino con generosità e senso della misura. E a tal proposito ci viene in mente il Tamerlano “di” Placido Domingo è il caso di dirlo per l'opera di Haendel che, al Festival di Salisburgo di tre anni fa, l'artista fece letteralmente brillare di fascinazione scenica (la differenza la faceva anche la “bacchetta” di Marc Minkowski, si capisce).
Ebbene, in questo caso – direzione orchestrale compìta e d'ordinanza – la forma di concerto diventava pericolosamente ibrida: non ha la forza contemplativa del concerto tout court, non ha l'actio della messinscena teatrale in piena regola. Nel cast, ben figurano la Gheorghiu e Elena Tsallagova (Sophie), Giorgio Surian (Le Bailli) e Daniel Schmutzhard (Albert), Ruben Drole (Johann), a tratti calante e non del tutto “centrato” lo Schmidt di Martin Zysset. Pjotr Beczala sarà certamente figlio amato del Festspiele (che lo ha tenuto a battesimo quasi vent'anni fa in Tamino del Flauto) e sarà pure pluridecorato Duca di Mantova (al “Met” di New York nel 2006 che lo rivuole per la prossima stagione e premiato nel 2014 con l'Echo Klassik Award come cantante dell'anno) ma, in tutta serenità, non ci pare che abbia offerto, qui, una prova brillantissima per fiati, mezze voci, rotondità e calore di voce. Poco male, nobody's perfect, avrebbe detto Billy Wilder.
A fine serata, una “coda” insolita e dunque in aroma salisburghese.
Da un tempio all'altro, da una leggenda all'altra. Dall'immensa, pullulante Grosses Festspielhaus al piccolo, affollatissimo Triangel (a dieci passi dai tre grandi teatri del Festival) “tana” di artisti e non solo che vi si rifocillano a tutte le ore per il suo tono speciale: è agorà d'accesi dibattiti dopo-teatro, più raffinato di una birreria, più informale di un ristorante. Ebbene, da Pourquoi me réveiller a Me and Bobby Mc Gee di Janis Joplin sono sempre dieci passi. E se prima pativamo con Va! Laisse couler mes larmes!, ora soffriamo con Little girl blue. Succede anche questo, qui, per fortuna. Mille facce che, non si sa come, si combinano in una sola: la musica.
Carmelita Celi
21/8/2015
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