RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Fresco Ventisettenne il Festival di Wildbad

Sbocciato alla fine degli anni Ottanta in quella deliziosa cittadina termale, nella verdissima Foresta Nera, il Festival Rossini in Wildbad è diventato nel volgere di pochi anni il contraltare del Rossini Opera Festival di Pesaro, pur senza pretese di sfida né scimmiottamenti. Tant'è vero che artisti blasonati assieme a giovani talenti agguerriti calcano ben volentieri le scene di Wildbad. Il plurale è in questo caso pertinente poiché si tratta di un piccolo teatro tardottocentesco di duecento posti e di due auditorium, situati tutti nel Parco delle Terme. Parco che, durante il periodo del Festival, è disseminato di paletti che sostengono altrettante immagini in varie età di Rossini, con prevalenza del Gioachino giovanissimo o giovane (mentre, a giudicare dell'iconografia che circola altrove, si potrebbe credere che una gioventù non l'abbia mai vissuta e che i 39 lavori teatrali del suo catalogo, musicati tra i 18 e i 37 anni, risalgano in realtà a un'età più tarda). Non soltanto Wildbad non ha dimenticato, ma ci tiene a ricordarlo, che il Cigno di Pesaro fu suo gradito ospite nel 1856 per un soggiorno di cura e ne trasse notevole giovamento per la salute. Infatti il centro cittadino celebra l'illustre visitatore con una statua abbastanza irriverente, che lo ritrae, ormai anziano e seminudo, in procinto di concedersi al bagno termale, e senza parrucca. Il festival si svolge tra metà e fine luglio e verso la fine si riesce a far quasi il pieno nell'arco di tre-quattro giorni (com'è stato nel mio caso).

Nell'edizione 2015 la parte del leone è toccata, com'è comprensibile, a titoli rossiniani quali: L'inganno felice, L'Italiana in Algeri e Bianca e Falliero. Colleghi ospiti di Gioachino erano quest'anno Manuel Garcia (padre della Malibran e primo Almaviva nel Barbiere di Siviglia) con l'operina-pasticcino da salotto Le Cinesi e Peter Joseph von Lindpaintner con l'ambizioso dramma storico Il vespro siciliano.

L'inganno felice, terzo cimento teatrale del ventenne Gioachino, ribadì e consolidò nel veneziano Teatro San Moisè l'8 gennaio 1812 il successo ottenutovi dal giovanissimo compositore all'esordio, quattordici mesi prima, con La cambiale di matrimonio. L'inganno felice, farsa in un atto senza coro su libretto di Giuseppe Foppa, più che farsa sembrerebbe opera semiseria, senonché per farsa si intendeva all'epoca un lavoro in un solo atto per lo più comico o talvolta semiserio, cioè sentimentale con un ruolo buffo.

Di vicende di spose fedeli, ingiustamente accusate da un aspirante seduttore respinto e ripudiate dal legittimo consorte, con o senza happy ending, la letteratura, il teatro e l'opera ci offrono un'infinità di esempi. Rossini stesso la riprenderà variandola, sempre per Venezia, nel successivo Sigismondo, opera seria su libretto del solito Foppa e anch'essa a lieto fine, che darà alla Fenice nel 1814. (Una ripresa a Wildbad di Sigismondo è già prevista per l'anno venturo).

Dato al Königliches Kurtheater, L'inganno felice si avvale della sobria ma essenziale regia di Jochen Schönleber con la funzionale scenografia di Robert Schrag e i costumi contemporanei di Claudia Möbius. L'atto unico è suddiviso in due parti e l'ingresso della miniera con a destra la casa del capo dei minatori, Tarabotto, costituisce la scena unica con qualche elemento scenico diverso in ciascuna parte. Dopo un decennio il duca Bertrando ritrova la moglie Isabella, già condannata all'annegamento ma tratta in salvo e accolta nel suo tetto da Tarabotto. La trama del traditore Ormondo viene poi scoperta e punita grazie anche al pentimento del di lui complice, il personaggio buffo, cioè Batone.

Antonino Fogliani ha diretto con bello slancio i Virtuosi Brunenses, mettendo in adeguato risalto le varie tonalità dell'Inganno: dal frizzante al soave, al patetico, al comico, al sinistro (del villain). Ragguardevoli il soprano Silvia Dalla Benetta (toccante Isabella), il basso Lorenzo Regazzo (autorevole Tarabotto) e il basso-baritono Tiziano Bracci (sorprendente Batone) e meritevoli il tenore Artavazd Sargsyan (Duca Bertrando) e il basso-baritono Baurzhan Anderzhanov (Ormondo). I recitativi secchi erano accompagnati dal pianista Michele D'Elia.

Altra opera veneziana, L'Italiana in Algeri, con il suo trionfale battesimo al Teatro San Benedetto il 22 maggio 1813 consacrò l'appena ventunenne Pesarese sommo artefice dell'opera buffa, dopo che tre mesi e mezzo prima il pubblico della Fenice lo aveva acclamato nel Tancredi nuovo demiurgo dell'opera seria. C'è di tutto e altro ancora nella scatenata Italiana, sull'indovinatissimo libretto di Angelo Anelli rimaneggiato da Gaetano Rossi, tra burlesco, grottesco, satira e sublimazione del nonsense (e i muscoli Gioachino li aveva già esibiti l'anno precedente alla Scala con La pietra di paragone), ma anche patriottismo, femminismo (sì, certo), cinismo e sentimento nonché sberleffi da ragazzaccio a “liturgie” massoniche (nella cerimonia dei Pappataci).

Data alla Trinkhalle in forma semiscenica o, per meglio dire, quartoscenica, coi soli movimenti dei solisti - che agiscono o mimano in disinvolta scioltezza - mentre il coro rimane schierato dietro, immobile ai due lati di una grande porta, e tutti indossano abiti civili, L'Italiana è andata questa volta poco oltre un'ordinaria amministrazione decorosa. Vi si è dimostrata volenterosa e vivace protagonista il mezzosoprano Ana Victoria Pitts (succeduta a Marina Viotti, che non ho ascoltato), accanto al gradevole Taddeo del baritono Matija Meic ed all'esuberante quanto versatile Mustafà (non troppo scuro) del basso-baritono Laurent Kubla, facile dominatore della compagine. Compagine che annoverava inoltre il Lindoro dell'accurato tenore Gheorghe Vlad, il cui timbro però non ne esaltava la prestazione, l'efficace Haly del baritono Daniele Caputo, l'aggraziata Elvira del soprano Sara Blanch e la spumeggiante Zulma del mezzosoprano Silvia Aurea De Stefano. Quanto al Coro Camerata Bach di Poznan, si è egregiamente disimpegnato nei numerosi e vari interventi e, alla guida dei diligenti Virtuosi Brunenses di Brno, José Miguel Pérez-Sierra ha impresso con avveduta conduzione una ragionevole verve.

Bianca e Falliero, ossia Il Consiglio dei Tre (1819) contrasta singolarmente con le poderose sperimentazioni delle opere serie napoletane - da Elisabetta, regina d'Inghilterra (1815) a La Donna del lago (1819) - in “virtù” del suo belcantismo tradizionale con tanto di recitativo secco, gradito però al destinatario milanese, cioè il pubblico della Scala, presso il quale ottenne uno straordinario successo malgrado il pollice verso di vari critici. Il libretto statico e paludato è di Felice Romani, di un Romani tuttavia poco felice. La vicenda richiama, anche per l'ambientazione veneziana, quella di Otello (1816), ma se Berio, librettista di quest'ultimo, non era un Romani, Romani qui non si dimostra neanche un Berio. Il contrastato amore, fino all'insperato happy ending , di Bianca per il generale Falliero, è tenacemente avversato dal padre della fanciulla non perché l'amante, che è un musico, vale a dire un contralto en travesti, sia uno straniero finanche di pelle, ma a causa di una rivalità tra famiglie dell'aristocrazia veneta.

Alla Trinkhalle la Bianca si avvale della scenografia e regia minime di Primo Antonio Petris, a cui si devono inoltre i moderni abiti da sera di interpreti e Coro, che è il valido, inappuntabile Bach di Poznan. Dopo l'Italiana “quartoscenica”, qui la scenografia è quasi virtuale, ma i coristi mascherati si spostano e rompono la staticità dell'azione con plastiche e leggiadre movenze. Musicalmente doveva essere la più ambiziosa proposta rossiniana e così è stato. La direzione autorevole e compatta di Antonino Fogliani alle redini dei Virtuosi Brunenses ha prodotto vibranti risultati con suadenti colori, giustificando la ripresa del non facile titolo. Sul fronte vocale, il confronto a distanza coi “mostri” della riscoperta pesarese del 1986 (io c'ero) fa sempre tremare le vene e i polsi. Grazie al Cielo, il contralto Victoria Yarovaya nell'arcimpervio ruolo dell'amante-generale Falliero ostracizzato ha messo in evidenza tecnica, timbro e smalto semplicemente formidabili ed il rapporto con l'amata Bianca del soprano Cinzia Forte, intrepida ed eloquente, si è rivelato felice. Quanto al cattivissimo, inflessibile Contareno, padre di Bianca, questi ha trovato nel tenore Kenneth Tarver, rossiniano di riferimento, un'incarnazione di lusso. Nel complesso soddisfacenti gli altri: il basso-baritono Baurzhan Anderzhanov (Capellio), l'altro basso-baritono Laurent Kubla (Doge Priuli), il mezzosoprano Marina Viotti (Costanza) ed il tenore Artavazd Sargsyan (Pisani).

Primo Almaviva rossiniano, Manuel Garcia (1775-1832), era guarda caso di Siviglia. Fu un multiforme talento e compose tra l'altro numerose opere e operette, tra cui Il Califfo di Bagdad (1813). L'operina da salotto Le Cinesi (esecuzione privata a Parigi nel 1831), su un tenue testo di Pietro Metastasio, già musicato da tanti altri, è strutturata per tre voci femminili e una maschile con accompagnamento di pianoforte. Tre fanciulle cinesi e il fidanzato di una di loro per vincere la noia improvvisano scene liriche: una tragica, una pastorale e una comica. la musica è gradevole ma non più di tanto, per l'intrattenimento di spettatori distinti forse neanche particolarmente attenti. In tenuta leggera, data la stagione, ne sono stati interpreti pomeridiani al Königliches Kurtheater con spigliatezza, brio e virtuosità, il soprano Sara Bañeras (Lisinga), il mezzosoprano Silvia Aurea De Stefano (Sivene), il mezzosoprano Ana Victoria Pitts (Tangia) ed il tenore César Arrieta (Silango), accompagnati al pianoforte da un elegante e vivace Michele D'Elia, con la piccante regia di Jochen Schönleber (tre dei cantanti erano attesi la sera alla Trinkhalle nella prima del Vespro siciliano).

I succitati, più vari altri giovani artisti e con l'intervento di due veterani quali il basso Lorenzo Regazzo e il basso-baritono Laurent Kubla, hanno animato il giorno prima nello stesso Königliches Kurtheater un saggio di canto, che ne ha messo in evidenza - grazie a un programma di brani noti e meno noti accompagnati da vari pianisti - i diversi talenti, tra belle promesse e incoraggianti certezze.

È probabile che Peter Joseph von Lindpaintner (1791-1856) - nativo di Coblenza, vissuto a lungo a Stoccarda e stimato da Mendelssohn - sia un pò meno oscuro ai più grazie al suo Der Vampyr (1828), coevo di quello relativamente più noto di Heinrich Marschner. Il titolo di Die Sizilianische Vesper (Stoccarda 1843) era invece rimasto, per così dire, dissimulato tra le pagine di qualche enciclopedia. Ma il XXI secolo è tuttora generoso di esplorazioni e scoperte nella giungla del repertorio operistico sommerso. Sembra che il nuovo direttore artistico del Teatro Donizetti di Bergamo abbia dichiarato a mo' di preambolo (mi è stato riferito, poiché non l'ho udito con le mie orecchie) che il pubblico ha paura dei titoli poco noti. Può darsi che sia così, mi sembra in ogni caso che certi direttori artistici ne abbiano maggior paura. Presumibilmente per far loro un dispetto il Festival di Bregenz ha già messo in cartellone per il 2016 l'Amleto di Franco Faccio (Genova 1865), che è riemerso da poco e con notevole successo negli Stati Uniti.

La Grosse heroische Oper mit Tanz in quattro atti di Lindpaintner, su libretto di Heribert Rau, è stata eseguita per la prima volta in questa occasione nella versione ritmica italiana dell'epoca di Wilhelm Häser. Versione intesa a favorirne la diffusione, oltre l'ambito della lingua tedesca, là dove esistevano teatri o stagioni di lingua italiana come a Parigi, Londra, Copenaghen, New York. In Italia in quegli anni Quaranta la censura le avrebbe senza alcuna esitazione sbarrato la strada, probabilmente anche nel Regno di Sardegna, e vano sarebbe stato il ricorrere a travestimenti vari.

In una Trinkhalle, gremita come di consueto, era viva l'aspettativa alla prima del Vespro siciliano, dato in forma di concerto e alquanto sfrondato (tra l'altro senza balletto). Il testo di Heribert Rau avrebbe probabilmente lasciato perplesso un Meyerbeer, tanto più che Rau sembra qui timido emulo di Scribe. Quanto alla goffa versione italiana di Häser, il tacerne sarebbe bello se non fosse ascoltata e prima ancora cantata. La vicenda anticipa per analogia talune situazioni delle Vêpres di Verdi del decennio successivo. Ma il villain non è qui un governatore francese bensì Carlo d'Anjou in persona. Non stupisce che un tedesco vedesse sotto una luce tutta negativa il bieco avventuriero, usurpatore del trono del Sud con la benedizione dei pontefici romani, poiché lo sventurato legittimo re Manfredi era figlio di un imperatore germanico e il malcapitato Corradino aveva anch'egli sangue imperiale nelle vene. Di Carlo d'Anjou invece chi può dire qualcosa di bene? In ogni caso alla conclusione dell'opera, quando i siciliani si sono sollevati debellando gli invasori francesi, la flotta di questi ultimi è incendiata al largo di Palermo in un finale sinfonico.

Peccato davvero che ci sia troppa dispersione in episodi secondari con una pletora di personaggi tra principali e minori. Era difficile concentrarsi sui singoli personaggi e sui vari episodi. Schematicamente si potrebbe sintetizzare così la vicenda: Carlo, da solo o tramite i suoi seguaci, vuole ad ogni costo fare sua la legittima consorte del patriota siciliano Conte Fondi, il quale riesce fino a un certo punto a sottrargliela tenendola nascosta. Alle spalle del tiranno si organizza intanto la rivolta istigata da Giovanni da Procida.

C'è tanta musica squisita, trascinante, benché non sempre efficacemente amalgamata nell'avvicendarsi di arie, cabalette, ballate, duetti, concertati, cori. L'invenzione melodica non langue affatto e la perizia strumentale è ragguardevole con la ricerca di un colore italiano. L'ouverture, che ha del weberiano, non sarebbe disdicevole nel programma di un concerto. Ma di torture vocali ce n'è per tutti poiché solisti e coro di Poznan sono impegnati fino allo spasimo per quasi quattro ore ed è strenuo anche l'impegno dell'orchestra dei Virtuosi Brunenses. La dirige efficacemente, pur con qualche inevitabile squilibrio, Federico Longo. Emerge esuberante come il personaggio il baritono Matija Meic (Carlo), accanto all'intrepida Eleonora del soprano Silvia Dalla Benetta, all'eroico Conte Fondi del tenore Danilo Formaggia e al poderoso Giovanni da Procida del basso catanese Dario Russo. Gli altri hanno fatto ciascuno del proprio meglio nel resto: i soprani Sara Bañeras (Celinda) e Sara Blanch (Aurelia), il mezzo soprano Ana Victoria Pitts (Albino), i tenori Carlos Natale (Étendard / Vernazzo), César Arrieta (Drouet) e Gheorghe Vlad (Conte Sanseverino), il baritono Daniele Caputo (De Bellecour), i bassi Marco Simonelli (Albergio da Bagiano) e Damian Whiteley (Conte di Marche / Francesco Russo / Carceriere).

Varato sotto il patrocinio di Sua Altezza Reale il Duca Carl del Württemberg (che alla seconda pomeridiana stava seduto, in tutta modestia, dietro lo scrivente), non è facile che questo Vespro lindpaintneriano approdi presto su altre scene, anzitutto per le difficoltà esecutive, ma ne resterà un'opportuna traccia in un futuro cofanetto CD, mentre circolano già registrazioni CD private. Peccato però che non lo si sia dato in tedesco (la qualcosa in Germania non sarebbe stata certo un'eresia!).

Fulvio Stefano Lo Presti

7/9/2015

Le foto del servizio sono di Patrick Pfeiffer e Roxana Vlad.