Boris Godunov alla Scala
Delirio e castigo
Opera aperta per eccellenza il Boris Godunov di Musorgskij, rielaborata dal suo stesso autore dietro le pressioni della committenza, sconcertata da una drammaturgia peculiare e distante dai modelli coevi, riarrangiata e strumentata da Rimskij-Korsakov prima e da Šostakovic poi, rappresentabile in innumerevoli varianti. Sfatato ormai da tempo il luogo comune del genio ruvido e incolto, mettere in scena il cosiddetto Ur-Boris quale titolo inaugurale della stagione scaligera significa penetrare nell'ispirazione primigenia del compositore, terragna e screziata da tinte oltremodo oscure. Più stringata delle sue edizioni successive, la partitura costruisce un arco narrativo unitario e drammaturgicamente inattaccabile. Come nell'opera di Dostoevskij, penso a Delitto e castigo, il senso di colpa domina l'azione. Boris soffre un rovello interiore che lo consuma. L'ambiguità riguardo la responsabilità del delitto, l'assassinio dello zarevic Dmitrij, getta una luce di grande modernità sul personaggio. Ildar Abdrazakov offre un'interpretazione gigantesca, mai sopra le righe e colma di toccante umanità. La linea di canto, pregna di innumerevoli accenti e sfumature, mantiene costante la misura, anche nelle pagine incrinate dal delirio. Boris è padre affettuoso e nel contempo tiranno, roso da rimorsi e preda di improvvise allucinazioni. La comparsa del falso Dmitrij, pretendente al trono, penetra la sua anima forzandone le incrinature, aprendo ferite insanabili. Sin dal suo primo apparire, nella spettacolare scena dell'incoronazione, Boris è afflitto da funesti presagi. Abdrazakov costruisce con maestria il percorso che lo conduce alla morte, il progressivo sfaldarsi di un uomo mai pienamente a proprio agio nei sontuosi panni imposti dal ruolo di zar. Non a caso il regista lo fa morire in abiti moderni, quasi a sottolineare il progressivo spogliarsi di qualsiasi attributo regale. Assolutamente toccante la scena conclusiva, con le estreme frasi emesse in un sussurro, ma in grado di saturare l'intera sala. Inutile eccezione al dettato testuale la coltellata inferta al sovrano da un gruppo di sicari, che sposta l'attenzione dal dramma intimo alla congiura di palazzo.
Accanto a tale protagonista il resto del cast spicca per l'affiatamento e il buon livello complessivo. Impeccabile per limpidezza vocale la prole di Boris, il Fëdor di Lilly Jørstad e la Ksenija di Anna Denisova. Ain Anger è un Pimen di grande personalità scenica, appena un poco offuscato all'inizio ma in grado di rendere con dovizia di accenti la statura morale del vecchio monaco. Possente lo Šcelkalov di Aleksey Markov, mentre Dmitry Golovnin rende con efficacia le crescenti ambizioni di Grigorij. Mai eccessivamente caricaturale e ben caratterizzato il Varlaam di Stanislav Trofimov, in grado di esporre la celebre canzone con esuberante efficacia narrativa. Norbert Ernst è uno Šujskij interessante dal punto di vista interpretativo, meno da quello strettamente vocale. Toccante nel suo intervento l'Innocente di Yaroslav Abaimov, a metà fra il fool shakespeariano e l'idiota di Dostoevskij. La scena è fra le più riuscite dell'intero allestimento per forza visionaria e afflato poetico. Nel suo delirio l'Innocente canta le sventure della Russia, quelle passate e quelle presenti, il destino aspro di un intero popolo. Buone le parti di contorno. Chailly dirige con dovizia di particolari e afflato comunicativo sfatando, se mai ce ne fosse stato bisogno, il mito di Musorgskij orchestratore rozzo. Il tessuto musicale risalta in tutta la sua forza espressiva, grazie anche alla prova maiuscola dell'Orchestra. Il Coro, ugualmente impegnato, non è da meno. Spettacolo minimalista ma potente di Kasper Holten. Il segno visivo è essenziale; un lungo cartiglio accoglie le cronache di Pimen e le immagini legate alla storia narrata, mentre intorno si distende un'enorme carta geografica a mostrare l'estensione dell'impero e le smisurate ambizioni degli uomini. La spettacolarità dell'incoronazione è garantita dal corridoio dorato che vede emergere Boris, e dai costumi sontuosi dei componenti la processione. Efficace la scena dell'osteria, con una cancellata a simboleggiare il confine lituano e la rocambolesca fuga di Grigorij, letteralmente issato verticalmente sulla carta geografica. La seconda parte dello spettacolo abdica alle scene nei luoghi istituzionali moscoviti, la piazza con la Cattedrale di San Basilio, il Cremlino, ma ambienta tutto in una stanza in quanto il dramma, pur coinvolgendo il popolo e i boiari, è prettamente interiore. Immagini di bambini insanguinati, in maniera forse troppo didascalica, ricordano l'assassinio dello zarevic, egli stesso vagante sul palcoscenico a materializzare gli incubi dello zar. L'impressione conclusiva è quella di un mondo preda del vuoto e dell'orrore, travolto dall'inesorabile macina della storia. Apertura di stagione di grande impatto, salutata con favore da un teatro saturo in ogni ordine di posti.
Riccardo Cenci
23/12/2022
La foto del servizio è di Brescia&Amisano.