Ricciardo e Zoraide
al Rossini Opera Festival 2018
Il XXXIX Rossini Opera Festival è stato inaugurato con l'opera Ricciardo e Zoraide in un nuovo allestimento curato da Marshall Pynkoski. Opera, o più precisamente, dramma serio per musica su libretto di Francesco Berio di Salsa (lo stesso di Otello), non è certo uno dei massimi capolavori seri del periodo napoletano di Gioachino Rossini, tuttavia in esso sono presenti alcune pagine di alto valore. Spartito dimenticato per oltre centocinquant'anni, fu recuperato a Pesaro nel 1990 (ripreso nel '96) a seguito dell'edizione critica curata da Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna. Un interessante scritto di Philip Gossett, pubblicato nel programma di sala, ci offre molte delucidazioni sull'opera, la cui fonte letteraria è il poema eroicomico “Ricciardetto” di Niccolò Forteguerri. Il librettista, nella volontà di concepire figure e affetti letterari in un testo che è del tutto diverso da quello letterario, produsse una trama, personaggi e drammaticità sovente fuori controllo nella prassi teatrale. Di contro è lecito rilevare che Rossini, sopraffatto dalla miscela di culture, non ebbe tempo o volontà di caratterizzare i protagonisti con musiche “etniche proprie” (elemento presente in altri spartiti sempre del periodo napoletano). Il dramma serio ha una conclusione lieta, infatti la complicatissima trama termina con la liberazione dei prigionieri in carcere. Gossett ricorda che alcuni musicologi nel secolo scorso bollarono lo spartito come “grottesco impasto di balordaggini e inverosimiglianze”, tuttavia il testo offre sia situazioni liriche sia drammatiche molto efficaci, che Rossini sfrutta producendosi in brani di ottima fattura. Ricciardo e Zoraide, dopo la prima napoletana del 3 dicembre 1818, fu rappresentato nei teatri europei per oltre un ventennio per poi immergersi nell'oblio. La peculiarità primaria dell'opera consiste nei pezzi d'insieme, infatti i quattro protagonisti hanno un solo pezzo solistico, le arie d'entrata per i tenori, un'aria quasi “da sorbetto” per il mezzosoprano, e un'aria finale per il soprano. La “novità” consiste invece nell'uso della banda sul palco (strumenti in cena e fuori scena), che si può ascoltare già dalla sinfonia. Nel complesso l'opera non è innovativa pur confermando la mano dell'autore che possiamo rintracciare nella ricca orchestrazione e un'esuberante scrittura vocale impervia. A tal proposito è utile ricordare che i primi interpreti furono Giovanni David, Isabella Colbran, Andrea Nozzari e Rosmunda Pisaroni, cioè il gotha del bel canto del primo ottocento, figure chiave del teatro lirico sulle cui peculiarità vocali Rossini compose molte opere, e in tale ottica sarebbe opportuna la scelta del cast.
Due sono i clamorosi punti deboli di questa produzione, e il primo e più evidente è il regista Marshall Pynkoski. Che l'opera sia di difficile realizzazione lo conferma anche il precedente allestimento di Luca Ronconi che non fu del tutto ottimale, ma arrivare oggi a rimpiangerlo era impensabile. Comprendere la linea drammaturgica del regista è ardua impresa, la quale non ha avuto un esito chiaro. Il tutto resta ipotizzabile e qualsiasi analisi non avrebbe una chiave di lettura esplicita. Ci limitiamo a elencare alcune componenti dello spettacolo, il quale dovrebbe trovare una chiave epica senza mettere in contrapposizione le due fazioni, bianchi e neri, ma piuttosto una lotta di potere interna agli affetti personali. Il regista non ha utilizzato lo scontro di culture, cristiana e islamica, e fortunatamente nemmeno l'attualizzazione. Lascia però interdetti la lettura statica e sostanzialmente blanda, con soluzioni cosi dozzinali che in più momenti il pensiero porterebbe alla lettura ironica e satirica. L'inserimento di un corpo di ballo, peraltro molto bravo, di cui non si capisce il senso e la funzione, è talvolta di così forte imbarazzo da parafrasare la risata con le sdolcinate coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg. Non contribuiscono a sollevare le sorti le scene dipinte, di Gerdar Gauci, ma senza identità, che cambiano a vista e l'effetto è bello se visto su cartolina. La fattura dei costumi di Michael Gianfrancesco è di altissimo livello, anche se gli stili sono molteplici.
Per l'occasione l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai era diretta da Giacomo Sagripanti, il quale era il secondo punto debole. L'orchestra svolge il suo compito con doviziosa precisone, il timbro è bello e nitido, ma la bacchetta non riesce in una lettura che si rifaccia allo stile rossiniano tipico del repertorio serio. Il tutto è risolto con una sommaria precisione ma senza anima, colori, fraseggio e una lentezza predominante. Era latitante lo scavo drammaturgico sui diversi momenti teatrali che non trovano scolpita l'enfasi musicale, solo abbozzata. Il maestro ha il merito di non coprire mai le voci e di condurre in porto l'intero progetto ma senza una chiara idea narrativa e un linguaggio musicale appropriato per un Festival monografico e di riferimento. Molto buona la prova del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, diretto da Giovanni Farina, che ha modo di mostrarsi in numerosi numeri dell'opera con ammirevole professionalità.
Indubbio che il motivo di maggior interesse del cast fosse il tenore Juan Diego Florez, al suo debutto nel ruolo di Ricciardo. Una prova superata bene e sicuramente maggiore rispetto ad altri ruoli affrontati recentemente, Rossini gli calza meglio. La voce, lo abbiamo già detto in altre occasioni, è meno duttile di un tempo e in parte le scene di languore ed estatiche sono meno affrontate. Ne riceve maggior rilevanza la zona centrale che assume portante significato espressivo. Il recitativo è solitamente accuratissimo, la dizione perfetta e le agilità sono ancora punto di riferimento, anche se non più folgoranti. Elemento di grande classe capace sempre di trovare un pertinente utilizzo di colori e accenti.
Il soprano Pretty Yende era Zoraide, che potrebbe essere il terzo punto debole. La signora è un'onesta cantante che in altre occasioni abbiamo anche apprezzato. La sua presenza nel cast pesarese è il classico caso del cosiddetto fuori ruolo. Infatti, considerando che Zoraide è un personaggio ideato dalla Colbran ci si domanda quale parallelo possa esserci con una voce da soubrette, musicale, con spiccata proiezione in alto ma quasi inesistente nel registro grave. Sono i limiti di una voce utilizzata in un ruolo troppo arduo che prevede un recitativo con accenti drammatici, un canto sostenuto nella zona centrale e una spiccata propensione al registro sovracuto. Purtroppo di fraseggio e colore c'era scarsa traccia, la voce spesso denunciava un'intonazione precaria e se la salita in acuto sarebbe anche facile, è chiaramente dozzinale per insufficienza tecnica.
Molto meglio l'Agorante interpretato da Sergey Romanovsky, il quale pur non essendo un tipico baritenore riesce con qualche artificio nell'ardua impresa ma il registro acuto non è calibrato. Il timbro poco seducente è tuttavia abbastanza espressivo e le intenzioni di fraseggio e accenti volenterose ma non sempre realizzate. Brava Victoria Yarovaya, Zomira, non tipicamente contralto ma cantante rifinita e con vocalità ampia. Brava nel registro grave quanto nella coloratura e nei trilli che contraddistinguono la sua aria solistica, senza dimenticare le ottime prove nei pezzi d'insieme. Rilevante la presenza di Nicola Ulivieri nella breve parte di Ircano, eseguita con stile e grande professionalità.
Di buone qualità l'Ernesto di Xabier Anduaga, da valutare anche in ruoli più impegnativi, e professionali gli altri tre interpreti che completavano la locandina: Sofia Mchedlishvili, Fatima, Martiana Antonie, Elmira, Ruzil Gatin, Zamorre, tutti provenienti dall'Accademia di Pesaro.
Lukas Franceschini
21/8/2018
Le foto del servizio sono dello studio Amati Bacciardi di Pesaro.
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