Buon compleanno, Bruckner!
Cosa c'è di meglio, per un compositore, che festeggiarlo col suo pezzo più famoso?
Intenzionalmente o meno, è avvenuto col concerto di domenica 4 settembre 2022 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: una bella festa a sorpresa per il centonovantottesimo compleanno di Anton Bruckner (n. 04/09/1824), con la Gustav Mahler Jugendorchester a eseguire la Sinfonia n.7 in mi maggiore WAB 107, diretta da Jukka-Pekka Saraste. Conoscendo il suo carattere schivo, i suoi modi un po' rudi, forse ne sarebbe stato infastidito. O forse no, dato che, stando alle testimonianze, gli fecero bene quei bagni di folla, a lui, eterno insicuro, prima a Lipsia, alla prima esecuzione (30/12/1884, diretta da Arthur Nikisch), poi a Monaco, alla seconda (10/03/1885 diretta da Hermann Levi). A sessant'anni compiuti, finalmente, arrivavano i primi trionfi personali. Tre anni esatti di lavoro per comporla, 1881-1883, un'ora abbondante di durata: una vita per entrarci dentro a fondo, come Celibidache insegna (stupendo il video su YouTube delle prove!).
Abbinare alla Settima di Bruckner la Terza di Schubert, servita come stuzzicante entrée prima del piatto forte, può sembrare fuori luogo, ma non lo è. Anzi tutto, può essere stimolante confrontare due sinfonie di due compositori austriaci (non solo Mozart nacque in Austria!) a settant'anni circa l'una dall'altra, essendo stata scritta quasi per intero con stupefacente velocità in otto giorni, nel luglio del 1815. Ma tra i due esistono legami musicali sotterranei, se tralasciamo i superficiali paralleli biografici quali l'essere stati entrambi maestri di scuola nella prima parte della loro vita, coltivando la composizione come hobby, e l'essersi formati, almeno inizialmente, da autodidatti. Bruckner inizia a conoscere la musica di Schubert sui vent'anni, suonando con Carolina Eberstaller pezzi pianistici a quattro mani che lei eseguiva in coppia con Schubert stesso due decenni prima. Nel 1865 Johann Herbeck (uno degli esaminatori di Bruckner) scopre a casa di Hüttenbrenner il manoscritto dell'Incompiuta, proprio nel periodo in cui Bruckner avviava i primi incerti tentativi sinfonici (quelle sinfonie che non numererà ufficialmente). Questa, insieme alla Grande, suggeriscono a Bruckner la doppia valenza ritmica e melodica degli incisi motivici, cosa di cui farà tesoro in seguito (vedi l'inizio della Quarta). E il tritematismo, con cui Bruckner informerà e amplierà nelle sue sinfonie la forma-sonata, lo scopre nelle ultime Sonate pianistiche schubertiane, quelle del 1828.
La Sinfonia n.3 in re maggiore D 200, la più stringata di Schubert, strizza l'occhio a “papà” Haydn da una parte, nella struttura come nella giocosa sintassi avulsa dall'accesa conflittualità beethoveniana, e all'italianità dall'altra, nel primo tema dell' Allegro con brio, ad esempio, che sembra essere uscito dalla penna di Rossini, o nel Finale a tarantella, di cui si ricorderà (consapevolmente?) Mendelssohn nella sua Italiana Op.90. Ma proprio a Beethoven sembra guardare Saraste nel dirigerla. In tutti e quattro i movimenti si avverte un piglio deciso, poderoso, un polso fermo; anche nell'Allegretto, che eccezionalmente sostituisce il classico tempo lento, non si fa alcuna concessione a quell'andamento che si sente ispirato alla grazia viennese, ed esso fila deciso attraverso il suo meccanismo a orologeria di sapore haydniano. E pure il Vivace che segue, il Menuetto ormai trasfigurato in Scherzo, davvero “vivace”, si mantiene sulla stessa linea, concedendo soltanto uno spiraglio di cantabilità nel Trio, ove spicca, morbido e molto ben amalgamato, l'impasto timbrico dei fiati. Non si smentisce il Finale, in cui (ma è caratteristica di un po' tutta questa lettura) i timpani si lasciano andare ad alcune impennate di protagonismo, peraltro non gravi. La sinfonia termina con un fragoroso e rustico benessere, una chiusa briosa e spumeggiante, da bottiglia di champagne stappata.
Giusto il tempo dell'intervallo e siamo pronti per il più serioso lavoro bruckneriano. L'orchestra raddoppia, raggiungendo suppergiù i cento elementi. E, se è vero che, come diceva Toscanini, bisogna dirigere con la partitura nella testa e non con la testa nella partitura, Saraste deve avere una gran bella memoria per rinunciare, in questa Settima come nella Terza, al leggio. La lettura che ne dà offre però elementi discordanti di assenso e dissenso. A partire dai tempi, piuttosto accelerati per quanto riguarda i primi due movimenti. Prendi l'arcata ascendente di corni e violoncelli che apre l'Allegro moderato , per esempio, sul tremolo dei violini. Là dove tutto è adorazione del suono, evocazione di spazi e di profondità (alla lontana ci riconosci, almeno nelle intenzioni, quel sorgere primordiale del Vorspiel del Rheingold), velocizzato si trasforma in un banale arpeggio sulla trita e ritrita triade maggiore. È pur vero che, una volta fatto l'orecchio, questa scelta non disturba più di tanto. Qualche incertezza negli interventi solistici dei fiati, a inizio sviluppo, che paiono disomogenei, come slegati dal contesto, per il resto esecuzione ben condotta, fino al pedale di Mi tenuto da timpani (stavolta domati alla giusta dinamica) e bassi. Più enigmatica la scelta per il secondo movimento, che Bruckner prescrive Sehr feierlich, und sehr langsam, cioè Molto solenne, e molto lento. È il cuore emozionale della Sinfonia, il movimento attorno a cui ruotano gli altri, e si sa bene perché. Fin troppo nota è la sua genesi, brano composto nel 1883 sul presentimento della morte di Wagner, e che darà modo a Bruckner di dedicare la sinfonia a Ludwig II di Baviera, che di Wagner era stato protettore, e di includere in organico le tube wagneriane, così importanti per suggerire, grazie alla sonorità brunita che conferiscono al timbro del corale d'apertura, il giusto stato d'animo di raccoglimento, di meditazione – stati d'animo per cui sono famosi anche altri Adagi bruckneriani (quelli della Quinta, Sesta, Ottava, Nona …) –; meno noto è che venne utilizzato durante i funerali di Bruckner. Al tempo staccato da Saraste perde tuttavia parte della sua carica emotiva, pur restando sublime nel resto, coadiuvato dagli ottimi interventi corali di fiati e ottoni. Scelta stilistica, o impiego di un'edizione critica particolare, l'assenza del triangolo nel momento del climax alla terza ripresa del refrain con le suddette tube? «Un solo problema filologico sussiste, per la Settima , quel colpo di piatti e triangolo che marca il culmine dell'Adagio […]: i due strumenti non figurano in nessun altro luogo della partitura, ed è certo che Bruckner li aggiunse a cose fatte, dietro insistenza di Schalk, che voleva evidentemente sottolineare il carattere dirompente del grandioso cataclisma che corona la monumentale ascesa armonica e dinamica di questa perorazione. Accolto nelle edizioni critiche, questo tocco di strumentazione è però soppresso da molti direttori» (Daniele Spini, programma di sala del concerto del Maggio Musicale Fiorentino, Firenze, Teatro Comunale, 19/11/1980). Del resto è un peccato veniale: piatti e triangolo non fanno parte del linguaggio bruckneriano, tanto vale espungerli.
Più in linea con una certa pratica direttoriale gli ultimi due movimenti, che alleggeriscono la tensione spirituale fin qui accumulata, lo Scherzo per scaricarla nella cavalcata selvaggia dell'ostinato agli archi, il Finale per aureolare di luce il percorso. Ben ritmato lo Scherzo, senza esagerazioni ma in grado di emozionare. Un tocco personale di originalità è stato quello di interrompere il crescendo a batt. 64 e farlo ripartire alle batt. 65-68 (e sì: tre battute possono fare la differenza), prima di esplodere nel fortissimo: come un oratore che, per evidenziare l'arrivo di una parola-chiave, fa una piccola pausa subito prima (il paragone è ancora più calzante se si pensa che Saraste applica davvero questa piccola sospensione – tornando un attimo a parlare del primo movimento – al culmine del crescendo che introduce il terzo tema, un crescendo ad effetto che promette senza mantenere, sfociando in pianissimo: e la sorpresa riesce anche meglio). Ancor più azzeccato il taglio del Finale, forse più nelle corde di Saraste, che conclude magistralmente l'esecuzione, benché a tratti si avverta un affastellamento di piani sonori che rende indistinguibile l'insieme.
Al termine la Gustav Mahler Jugendorchester viene ricompensata da scroscianti, prolungati, quanto meritati applausi, provenienti anche da una nutrita schiera di coscritti, anno più anno meno (il più “vecchio” è il primo violino, classe 1993, i più giovani del 2003: davvero una Jugend Orchester): claque tanto gradita perché non prezzolata, ma animata da sincero entusiasmo. Ed è stato bellissimo vedere che tali applausi suscitavano tra gli orchestrali sorrisi e ammiccamenti complici e soddisfatti!
Christian Speranza
8/9/2022
La foto del servizio è di Michele Monasta.
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