RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Sine nomine

di Sara Elisa Stangalino-Schulze

Di consueto rifuggiamo dall'incasellare un prodotto letterario in un determinato genere, anche perché spesso un romanzo noir può sconfinare nel romanzo d'amore, così come quest'ultimo può a sua volta sconfinare in quello storico, realistico, fantastico, onirico, psicologico e chi più ne ha più ne metta nel calderone delle definizioni. Tuttavia, dopo esserci imbattuti ed avere letto il romanzo di Sara Elisa Stangalino-Schulze dal titolo Sine nomine, edito dalla casa editrice Diastema da poco meno di un anno, ci sentiamo nell'impellente necessità di farlo, poiché tale avvincente testo si può benissimo assimilare e far rientrare nel genere del romanzo gotico, sia per lo stile di condurre la misteriosa e inquietante trama che lo avvolge, sia per l'aura di magia, arcano ed esoterico che si sprigiona da esso come un profumo esotico, raro e vetusto. Il romanzo pertanto si rivela come un crossover del gotico anche perché la sua lettura ha letteralmente scatenato la nostra fantasia immaginativa riuscendo ad evocare intrighi e personaggi affascinanti e conturbanti, degni di un racconto di Ann Radcliff, William Beckford, di Algernon Blackwood, di Edgar Allan Poe, di Edward Frederick Benson, di Gustav Meyrink o perfino di una Vernon Lee (nome de plume di Violet Paget)

Nel romanzo Sine nomine i temi del doppelgänger, dell' Ebreo errante, dell' apparizione ectoplasmatica, della regressione, della bilocazione, sembrano intrecciarsi, fondersi e confondersi per dare vita ad una trascinante, avvincente e intricata trama che sfocia in una fitta rete di rimandi, che pur mantenendo la sua tonalità fondamentalmente gotica e fantastica tende ogni tanto e deviare fatalmente verso l'alchemico, nel senso letterale della parola, inteso come trasformazione, metamorfosi, cangiamento di opinioni, punti di vista, concetti e preconcetti dai quali i vari personaggi sono assillati e tormentati sia nella veglia che nel sonno e perfino nella rappresentazione dei sogni, anch'essi ambigui, oscuri, vaghi, evanescenti e sfuggenti, oppure ondivaghi fra l'ermetico, il rivelatore e il premonitore.

Lo stile di scrittura esibito da Sara Elisa Stangalino-Schulze, sempre sciolto, elegante, accattivante e inebriante, si rivela certamente tanto tradizionale, nel senso tecnico del termine, quanto funzionale alla conduzione narrativa, avvalendosi anche di cupe atmosfere ottenute con oculate, abili e ben dosate descrizioni e ambientazioni, che sanno indurre con accorta sagacia nel lettore il brivido, la suspance e l'angoscia, come avviene per esempio nella rappresentazione del seppellimento della zia di Megara, la donna protagonista del romanzo: «Il sacerdote terminò la sua parte e fece largo agli affossatori che impugnarono le corde per sollevare il catafalco. Fu in quel momento che Megara ebbe l'impressione di essere osservata, insistentemente, alle spalle. La gola le si strinse: l'odore dei gigli, dei fiori che stavano marcendo sulla tomba accanto, l'asfissiò. Si volse di scatto: il suo sguardo vagava fra le tombe, la bara della zia calava, finchè in lontananza, in un angolo del campo, intravide la sagoma di un uomo in impermeabile bianco che guardava dritto verso di loro. Era solo, immobile in aspetto marmoreo, severo. Fumava una sigaretta. Raccolto in silenzio, sembrava intendere, nonostante la distanza, le parole che il prete recitava. Di tanto in tanto abbassava gli occhi, nel modo furtivo che s'usa per sottrarsi all'attenzione di chicchessia». La brava scrittrice esibisce un uso della scrittura quasi da sceneggiatura cinematografica di un thriller che si prefigge lo scopo di incutere sbigottimento, sgomento e sbalordimento all'interno della psiche dello spettatore.

L'abilità professionale di scrittura della quale è in possesso la Stangalino-Schulze da un lato e la sua teoretica e metafisica profondità dall'altro si evidenziano bene nel seguente passo: “Gli parlava delle sue idee sulla natura archetipica della “forma” nell'arte, nei suoi più svariati àmbiti. Pensava che la ricerca della forma fosse null'altro che la ricerca di soluzioni terrene per domande esistenziali, per la codificazione di un linguaggio comune e stabile nel tempo. Si appellava al noto luogo secondo il quale alcune forme perdurano nel tempo e in più di un àmbito simultaneamente. Asseriva disinvolte analogie, per esempio tra la poetica del ‘non finito' michelangiolesco e alcuni aspetti della pratica dell'improvvisazione musicale. Le sembrava che le tarsie lignee del palazzo di Urbino costituissero una vera e propria trasposizione visiva della ‘musica immota' dell'epoca elisabettiana, e che l'oculo che il Mantegna aveva dipinto nella Camera degli Sposi di palazzo Gonzaga non fosse altro che un'antesignana traduzione iconografica del moderno espediente del metateatro».

Dall'intero romanzo si diffonde tutta una serie di effluvi sinestetici attraverso i quali colori, suoni, odori immagini, simboli, si intersecano, talora si potenziano, talora si dissolvono, gli uni negli altri creando come un grande flusso che avviluppa non solo l'attenzione ma anche l'emozione e la psiche del lettore investendolo di una sovrabbondanza di correlazioni dove il rimando segnico e allusivo prevale su tutto. Pieno di arcana fascinazione e sfumata (forse ambivalente o addirittura sfuggente?) definizione si rivela il personaggio di Ottaviano Schmitt la cui figura si carica di tutte le misteriose caratteristiche e peculiarità di personaggi oscuri e impenetrabili come Ermete Trismegisto, Asvero, il Conte di Saint Germain!

Giovanni Pasqualino

1/7/2021